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Opinioni

Perché la crisi di governo è molto più vicina di quanto si creda

Il governo Draghi traballa praticamente dal primo giorno, ma non si era mai giunti al punto di rottura. Proviamo a capire perché la crisi è molto vicina. Le elezioni no, ovviamente.
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La data segnata in rosso sul calendario è quella del 21 giugno, quando Mario Draghi tornerà a parlare alle Camere. Il Parlamento dovrà votare una risoluzione per dargli mandato in vista del successivo Consiglio Europeo, che si occuperà principalmente della questione Ucraina (cercando una risposta comune al cambio di strategia russo sul gas). A differenza di quanto avvenne a marzo, stavolta non sarà affatto semplice trovare una posizione unitaria.

La maggioranza è più divisa che mai, le frizioni interne ai partiti sono ai massimi livelli e le pressioni esterne (in particolare dal settore produttivo) cominciano a farsi sentire. Non c’è accordo in maggioranza sul sostegno militare all’Ucraina (o meglio, sulle sua modalità), ma soprattutto ci sono idee diverse sulle prospettive nel medio e lungo periodo. Finora i tentativi di trovare una sintesi sono stati vani, malgrado un ampio ricorso a formule in politichese e la propensione al compromesso dell’entourage di Draghi. La cerchia ristretta del Presidente del Consiglio, infatti, sa benissimo che quella parlamentare è sostanzialmente una pura formalità: l’Italia ha impegni già presi con i partner europei e piccole deviazioni non possono avere che un impatto minimo sul contributo del nostro Paese alla resistenza ucraina. Per quanto deprimente sia, in questo momento il Parlamento ha ben poco peso; un motivo in più per non forzare la mano in vista del 21, cercando un compromesso che salvi almeno una parvenza di serietà, stante che l'immagine della politica italiana all'estero non gode comunque di grande stima.

Non è il voto parlamentare a preoccupare, dunque, ma le fratture politiche interne alla maggioranza. Le perplessità contiane sulle armi, così come gli sbandamenti russofili di Salvini, infatti, non possono essere derubricati banalmente come “visioni differenti” nel contesto di un normale dibattito interno alla maggioranza. Non si può quando si ipotizza una risoluzione alternativa che contiene distinguo importanti su un tema centrale come quello delle armi; non si può quando il leader del Carroccio si muove autonomamente per andare a trattare a Mosca (con quale autorità non è dato sapere).

Non parliamo solo dei leader delle due principali forze parlamentari che hanno visioni diverse da quella del governo che sostengono, ma dell’effetto che tali posizioni producono all’interno dei partiti e dei gruppi parlamentari.

In tal senso, la questione Ucraina funge da detonatore di distanze e mal di pancia che da mesi stanno sfinendo gli azionisti della maggioranza. È così per i 5 Stelle, logorati dalla faida Conte – Di Maio e puniti duramente dagli elettori alle Comunali, che bisticciano sull’Ucraina e preparano la resa dei conti definitiva sul voto per superare il doppio mandato. È così per la Lega, lacerata dai contrasti fra i governisti e gli oltranzisti, ma anche dal crescere dello scetticismo sulla capacità di Salvini di guidare la transizione verso le urne, dopo gli errori degli ultimi mesi. Non che la situazione sia diversa per gli altri partiti, come vi abbiamo raccontato qui, ma è chiaro che le tribolazioni di Lega e 5 Stelle possono innescare un effetto domino.

Salvini e Conte sanno di non poter andare avanti per molto in questo modo. Entrambi hanno i propri nemici interni con ruoli di grande responsabilità nel governo. Entrambi stanno pagando la scelta di sostenere Draghi in termini di consenso e di credibilità personale. Entrambi hanno perso di incisività sul piano comunicativo, potendo contare su ridotti margini di azione e manovra. Entrambi hanno visto diminuito il loro peso politico all’interno e all’esterno dei loro partiti. A entrambi finora è mancata la forza di imporre idee e temi cari al proprio elettorato di riferimento. Anche perché, in realtà, nessuno dei due è sembrato controllare i propri parlamentari, tanto da poter andare fino in fondo nelle minacce e negli ultimatum.

Un’impasse dalla quale entrambi devono uscire, perché la fine della legislatura si avvicina, i sondaggi sono sempre più brutti e gli avversari sempre più forti. E se i contiani si sono resi conto che la strategia dell’appoggio “scettico” a Draghi non ha pagato, i salviniani si stanno rendendo conto che il piano del Capitano (sostenere il governo per crearsi uno standing da autorevole aspirante alla Presidenza del Consiglio) è fallito miseramente e che hanno semplicemente lavorato per Meloni.

Il tempo delle mezze misure per Conte e Salvini è finito, insomma. L’Ucraina sarà l’antipasto, ma l’irrequietezza crescerà di settimana in settimana, fino ad arrivare al punto di non ritorno. Che può tradursi in modo diverso (uscita dal governo, scissioni, appoggio esterno), ma che risponde a una sola esigenza: arrivare in campagna elettorale con le mani libere, senza il peso dell’ammucchiata.

Ah giusto, il governo. Realisticamente non ci sono possibilità che Draghi lasci Chigi, quantomeno fino alla prossima legge di bilancio. Diverso, come dicevamo, è il discorso sulla squadra e sugli equilibri di governo, che appunto si intreccia con le strategie dei partiti e le necessità dei leader. Si ballerà, anche parecchio.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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