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Pippo Fava, il giornalista ucciso dalla mafia perché diceva la verità

Intellettuale poliedrico e direttore del periodico catanese ‘I Siciliani’, Pippo Fava morì freddato da cinque pallottole mentre lasciava la redazione, la vigilia dell’Epifania del 1984, a Catania. Il suo giornale aveva pubblicato un’inchiesta bomba sulla collusione tra imprenditoria e mafia sotto il segno del clan Santapaola.
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A cura di Angela Marino
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Giuseppe, detto Pippo, giornalista, pittore, drammaturgo, padre, ma soprattutto intellettuale tenace fino alla testardaggine, aveva pensato a quel momento tante volte. Sapeva meglio di chiunque altro che in Sicilia le voci libere, le voci contrarie, si mettono a tacere con la naturalezza con cui si schiaccia un moscerino sul muro. Senza clamori e senza rumore, bastava mettere in mano poche centinaia di lire a un ragazzetto e il bastian contrario finiva a fare le sue inchieste in una cassa di legno.

Eppure tutto ciò non lo aveva mai distolto dallo scrivere la verità senza compromessi, come un giornalista doveva fare, per amore di cronaca, ma soprattutto per amore di una vita, che vissuta nella paura e nell’omertà, non aveva senso. Alla fine quella sera arrivò: non è dato sapere se Pippo Fava soffrì o anche solo si accorse delle cinque pallottole che tagliarono l’umidità di quella sera della vigilia dell'Epifania. Morì sul colpo nella sua Renault Cinque, parcheggiata in via dello Stadio, mentre lasciava la redazione per andare a vedere la nipote recitare Pirandello al teatro di Catania.

La storia di Giuseppe, ‘Pippo ‘, Fava comincia 59 anni prima a Palazzolo Acreide, paradisiaco paesino sui monti Iblei, a 40 minuti da Siracusa. Si laurea in legge, ma la sua profonda capacità di analisi e di osservazione della realtà lo porta dritto alla poltrona a di caporedattore prima al Giornale dell’isola, al Corriere di Sicilia e al giornale L’Isola – Ultimissime, e infine al quotidiano catanese Espresso sera, dove lavora per circa vent’anni, firmando numerose inchieste.

Il manifesto programmatico

La svolta nella carriera di Pippo Fava arriva la direzione de il ‘Giornale del Sud', progetto editoriale nato all’interno della lobby imprenditoriale-politico di Catania. È il 1980, Fava è un pittore, giornalista drammaturgo e intellettuale di punta e un direttore di giornale a dir poco pionieristico. Mette su una redazione di giovani collaboratori che conta al suo interno anche il figlio Claudio, e come prima operazione, pubblica un ‘manifesto’ di intenti chiamato ‘Lo spirito del giornale’ in cui annuncia un lavoro strenuo in favore della ‘verità’ e della ‘giustizia’. Coraggioso per alcuni, sconsiderato per chi ben conosceva la Catania delle compiacenze politiche e del giornalismo ‘comodo’, quello a cui evidentemente un giornalista come Fava non aveva voleva prestarsi.

L’ingresso di una nuova cordata di imprenditori nel gruppo editoriale, però, mette all’angolo la linea legalitarista del direttore Fava. Nel giornale finanziato da Salvatore Lo Turco e Gaetano Graci, amici del boss Benedetto, Nitto Santapaola, le inchieste sugli intrecci tra l’imprenditoria e la mafia etnea non sono più gradite. Dopo una fase di ostracismo interno e di intimidazioni e attentati all’esterno del giornale, Fava perde la direzione: non più l’uomo giusto per il ‘Giornale del Sud’. 

“ I mafiosi non sono i piccoli criminali, sono quelli che stanno in Parlamento, ai vertici della Nazione. ”
Pippo Fava

‘I siciliani'

Estromesso dal progetto, Pippo raccoglie i suoi giornalisti migliori e, attraverso la cooperativa Radar, recupera fondi con cui riesce ad avviare il progetto di un periodico a dir poco ambizioso che diventa riferimento morale e culturale del movimento antimafia. Il giornale si chiama I Siciliani, perché, come ripeteva sempre, ‘I Siciliani non sono mafiosi, i siciliani combattono la mafia da secoli'. Finalmente libero di raccontare i fatti senza censure, Fava apre il primo numero con un'inchiesta bomba, il 22 dicembre 1982, dal titolo ‘I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa', dove indica in Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, i quattro referenti nell'imprenditoria del clan guidato del boss Nitto Santapaola, quello che aveva appena massacrato il generale Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro.

Il delitto

Di fronte alla sfrontata indipendenza politica ed intellettuale di Pippo Fava, il cui lavoro giornalistico, tutt'altro che marginale, fa tramare dalle fondamenta il sistema affaristico siciliano, i suoi avversari tentato un'offensiva bianca, pacifica. Mario Rendo, Salvo Andò e Gaetano Graci cercano di comprare il giornale, ma invano, così, la sera del 5 gennaio 1985, alle 21 e 30, il direttore Fava viene ucciso con una Beretta all'uscita dalla redazione.

L'indomani la stampa locale si spende in una articolata ricostruzione del delitto spingendo verso la pista passionale o economica. I funerali, ai quali partecipano pochissime persone, vengono disertati dalle cariche pubbliche. Bisognerà attendere il 1998, con la conclusione del processo ‘Orsa Maggiore 3' che aveva scoperchiato gli affari sporchi del clan Santapaola, per avere la verità sull'omicidio di via dello Stadio. Il boss Nitto Santapaola viene condannato all'ergastolo come mandate del delitto Fava, mentre, come organizzatori ed esecutori vengono invece condannati Marcello D'Agata, Francesco Giammuso, Aldo Ercolano e Maurizio Avola.

L'eredità di Pippo Fava

Dopo la morte del direttore ‘I siciliani', viene pubblicato per altri tre anni fino alla chiusura per mancanza di finanziamenti. Da pochi anni a questa parte, però, il progetto rivive con ‘I Siciliani giovani', una rete nazionale di testate cartacee e online che ripercorre le orme del fondatore Fava. Dell'intellettuale de del giornalista restano scolpite nel granito le parole del suo ‘manifesto':

Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili. Pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo.

Se un giornale non è capace di questo, si fa carico anche di vite umane.

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