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Perché ai matrimoni ci si abbuffa? Tutta colpa del Rinascimento

La tendenza all’abbondanza nei banchetti di nozze viene da lontano. A partire dal Medioevo vennero emanate diverse leggi suntuarie. Ma è col Rinascimento che si assiste a una vera e propria esplosione di cibo e confetti sulle tavole degli sposi. Il motivo? I ricchi consideravano il cibo uno status symbol.
A cura di Laura Di Fiore
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Il tempo dei matrimoni si avvicina e neppure gli sposi più sobri, nonostante le buone intenzioni, riusciranno alla fine a optare per un menù contenuto, capitolando davanti al dubbio inesorabile che assale davanti alla scelta del cibo: non sarà troppo poco? Pare comunque che la tendenza all’abbondanza nei banchetti di nozze venga da lontano. A partire dal Medioevo – come ci racconta Antonella Campanini – nelle città del Nord e Centro Italia vennero emanate diverse leggi suntuarie.

Queste ultime imponevano delle regole tese a limitare gli eccessi relativi agli abiti da indossare, ai gioielli da sfoggiare e anche ai banchetti da organizzare, con un’attenzione particolare a quelli nuziali. Ma cosa significava eccedere? Tra le seconda metà del Duecento e la fine del Trecento le leggi puntavano principalmente a porre dei limiti di natura quantitativa, che riguardavano in primo luogo il numero degli invitati.

Dimentichiamoci delle centinaia di ospiti ai nostri matrimoni: era consentito condividere il banchetto nuziale con i parenti degli sposi, ma fino a un certo grado, a cui potevano essere aggiunti altri invitati di numero variabile, ma compreso in linea di massima tra 6 e 12. E se per caso al loro controllo i funzionari avessero riscontrato più partecipanti alle nozze di quelli previsti dalle liste fornite dagli sposi, questi ultimi sarebbero stati costretti a pagare una multa. Le limitazioni di tipo quantitativo riguardavano inoltre il numero delle portate: tre, a cui era possibile aggiungere la frutta.

Certo, si trattava comunque di porzioni generose, se si pensa che per ogni persona era previsto circa 1kg e mezzo di carne, ma l’importante era non lasciarsi andare a un interminabile susseguirsi di piatti. A partire dal Quattrocento, però, le leggi suntuarie relative ai banchetti acquisirono un carattere più qualitativo, per cui presero a vietare o limitare determinati tipi di cibi.

In particolare, la carne fu l’elemento soggetto a maggiori restrizioni. Veniva fortemente limitato il consumo delle più pregiate e dunque più costose, ovvero la selvaggina e ancor più i volatili, la cui carne tenera e leggera cominciava a essere preferita dalle élites. Pavoni e fagiani, quindi, solo con gran moderazione. E se fino a quel momento diversi tipi di dessert, dai confetti al marzapane, erano stati concessi proprio per distinguere i banchetti nuziali da tutti gli altri, nel Cinquecento si cominciarono a proibire gli sprechi di confetti, troppo spesso gettati via.

Nessuno spazio insomma per la contemporanea (più o meno) trendy “confettata”. E gli attuali, agitatissimi weeding planners inorridirebbero di fronte ai divieti di ricorrere a orpelli vari per abbellire la tavola e i piatti, derubricati a “cose vane”. Ma la verità è che la tavola imbandita era già diventata un’opera da guardare prima ancora che da consumare. E se le leggi venivano emanate, è perché la tendenza agli eccessi era dilagante. Eppure le descrizioni dei banchetti rinascimentali sono piene di lunghe sfilate di pietanze e fuochi d’artificio a sorpresa per gli ospiti festanti.

Come mai? Perché, nel passaggio dai comuni popolari alle signorie, i nobili  erano stati esentati dalle leggi suntuarie. A cambiare erano state le esigenze delle leggi stesse che, se precedentemente avevano avuto come obiettivo quello di promuovere un’ “etica economica” generalizzata improntata alla misura e alla moderazione, a partire dal Quattrocento ebbero il fine di assicurare la distinzione tra le classi sociali.

Il cibo era divenuto sempre più uno status symbol, da esibire il giorno del matrimonio al pari dell’abito sontuoso e dei preziosi  ornamenti sul capo della sposa. Purché assicurasse la gerarchia sociale, assimilata all’ordine naturale, l’esibizione non era più eccesso e lo spreco non sussisteva, se anche il cibo gettato dalla finestra al popolo veniva interpretato come redistribuzione della ricchezza.

L’ostentazione era quindi un mezzo di differenziazione sociale, ma anche prodotto di un’ Europa che aveva già più volte sperimentato la fame e tendeva a esorcizzare la paura di nuove carestie con la smisurata abbondanza. Che resta indubbiamente protagonista dei nostri menù nuziali, quali che ne siano i misteriosi motivi.

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Nata nel 1979, vivo a Napoli e ho due gemelli. Sono ricercatrice in storia, (al momento) a Bologna, e ho pubblicato due monografie: Alla frontiera. Confini e documenti di identità nel Mezzogiorno continentale preunitario (Rubbettino 2013) e L’Islam e l’impero. Il Medio Oriente di Toynbee all’indomani della Grande guerra (Viella 2015).
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