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Il 6 agosto 1863 la strage di Pietrarsa: 4 operai uccisi in uno sciopero contro i licenziamenti

Quattro morti e 17 feriti: il 6 agosto del 1863, durante uno sciopero contro i licenziamenti nello stabilimento ferroviario avvenne la Strage di Pietrarsa.
A cura di Giuseppe Cozzolino
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Un gruppo di operai dello stabilimento ferroviario di Pietrarsa
Un gruppo di operai dello stabilimento ferroviario di Pietrarsa

Quattro operai morti, altri diciassette feriti: il 6 agosto del 1863 avvenne quella che ancora oggi è ricordata come la Strage di Pietrarsa. A perdere la vita i lavoratori che protestavano contro i licenziamenti che in quel periodo stavano interessando la fabbrica napoletana. Una vicenda che ancora oggi è ricordata soprattutto per la brutalità con cui lo sciopero fu represso, e per le vittime che causò. Una strage per la quale nella vicina San Giorgio a Cremano oggi esiste una "Via dei Martiri di Pietrarsa", stessa denominazione poi di una piazza nel quartiere napoletano di San Giovanni a Teduccio, non lontano dalla fabbrica dell'epoca.

La politica protezionista dei Borbone

Le Officine di Pietrarsa erano una delle poche fabbriche industriali del Regno preunitario dei Borbone, che davano però lavoro a tantissime persone e soprattutto permettevano attraverso una politica di protezione delle merci alle dogane di produrle in loco piuttosto che importarle dall'estero. Un dato, questo, che nell'immediato permise alla fabbrica di diventare un importante centro nel Reame, finché questo rimase separato dal resto d'Italia e dove dunque i dazi doganali permettevano al mercato interno di isolarsi da quello europeo. Ma quando l'Unità d'Italia prese corpo, si trasformò in un clamoroso boomerang: crollati infatti i dazi d'importazione, i costi di mantenimento della fabbrica salirono vertiginosamente, e lo stabilimento divenne tra i più costosi d'Italia.

L'inizio della crisi

Dai rapporti dei Ministeri, si evinse in breve tempo che se da una parte era ancora conveniente produrre locomotive (i cui prezzi di produzione erano comunque più convenienti di quelli esteri), così non era per quanto riguarda la fabbricazione di rotaie, i cui costi di produzione interna erano maggiori rispetto a quelli di importazione. Fu così, dunque, che nacquero i primi problemi: lo stabilimento, che contava nel giugno 1860 qualcosa come 850 operai stabili, 200 occasionali e 75 artiglieri come forze di sicurezza (per un totale di 1.125 persone), iniziò a essere ridimensionato, soprattutto perché la campagna protezionistica dei Borbone aveva finito per creare uno squilibrio che non poteva reggere con i mercati europei: con Regio Decreto del 10 gennaio 1863, lo stabilimento fu concesso in affitto, per 30 anni per 45mila lire, alla ditta che faceva capo all'imprenditore Iacopo Bozza, napoletano, ex impiegato borbonico e direttore di giornale. Bozza, per ridurre i costi di gestione, attuò la politica dei licenziamenti per ridurre il personale e rientrare delle spese.

La targa posta nel 2017 a San Giovanni a Teduccio
La targa posta nel 2017 a San Giovanni a Teduccio

Gli scioperi ad oltranza

Gli scioperi scoppiarono a ripetizione fino al 23 giugno 1863, quando Bozza promise il reintegro di tutti i licenziati ma dimezzando lo stipendio di tutti i lavoratori. Sembrò, inizialmente, un accordo soddisfacente, ma non ci fu il tempo di capire se la tregua sarebbe durata a lungo, perché a fine luglio non vennero pagati gli stipendi. Si è sempre ipotizzato che si trattò di un ritardo dovuto a cavilli legali, ma fatto sta che gli operai sentendosi presi in giro il 6 agosto 1863 fecero letteralmente le barricate: l'amministrazione chiamò la polizia della vicina Portici, ma i sei agenti giunti sul posto non riuscirono a calmare i quasi 500 operai furibondi, che nel frattempo avevano occupato la fabbrica. Poco dopo arrivarono i bersaglieri guidati da Nicola Amore (futuro sindaco di Napoli, al quale oggi è dedicata la piazza che porta al Duomo) per fornire un aiuto durante le trattative: ma quando gli operai aprirono i cancelli, alle 14 in punto, partì una carica violenta che represse nel sangue lo sciopero.

Ore 14 del 6 agosto 1863: la carica e i morti

Luigi Fabbricini ed Aniello Marino furono i primi due operai che morirono nella carica: i loro corpi restarono sul selciato della fabbrica. Domenico Del Grosso ed Aniello Olivieri morirono poco dopo all'Ospedale Pellegrini di Napoli, dove erano finiti per le ferite riportate. Sempre all'ospedale dei Pellegrini finirono Aniello de Luca, Domenico Citale, Mariano Castiglione, Salvatore Calamagni e Antonio Coppola, tutti gravemente feriti. Se la cavarono meglio gli altri feriti, tutti in maniera lieve: Alfonso Miranda, Raffaele Pellecchia, Giuseppe Chiariello, Carlo Imparato, Tommaso Cocozza, Giovanni Quatonno, Giuseppe Calibè, Leopoldo Aldi, Francesco Ottaiano, Pasquale de Gaetano, Vincenzo Simonetti e Pasquale Porzio. Una commissione d'inchiesta per accertare i fatti e fornire aiuti economici alle famiglie degli operai uccisi venne istituita dall'onorevole Enrico Pessina, che negli anni a venire divenne anche senatore e ministro. Iacopo Bozza, dopo questi avvenimenti, rinunciò all'officina di Pietrarsa, che passò ad altre società ottenendo anche l'esclusiva della produzione di materiale ferroviario per tutto il Sud. Solo nel 1975 avvenne la chiusura, e oggi ospita il Museo omonimo. Ma questa, come si suol dire, è un'altra storia.

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