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Opinioni

Minacciare l’equipaggio pur di non tornare in Libia non è reato: è legittima difesa

Il Tribunale di Trapani assolve i migranti che avevano accerchiato i marinai della Vos Thalassa: la reazione veemente era lecita, perché il respingimento avrebbe comportato la violazione dei diritti alla vita, all’integrità fisica e sessuale, oltre a negare la possibilità di richiedere asilo. Anche per questo, l’accordo Italia-Libia mostra diversi punti di illegittimità.
A cura di Roberta Covelli
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Estate 2018. Il 9 luglio, un mese prima del caso Diciotti, sulla stessa nave della guardia costiera italiana vengono trasbordate 67 persone, soccorse il giorno prima dalla nave Vos Thalassa, un’imbarcazione privata che si occupa della sorveglianza di una piattaforma petrolifera. Salvini coglie l’occasione per continuare la retorica a base di porti chiusi e minacce, Mattarella telefona a Conte facendo finalmente sbarcare i naufraghi, Toninelli twitta ringraziando la Guardia costiera e parlando di "punire facinorosi".

Il riferimento è evidentemente a Ibrahim Bushara e Hamid Ibrahim, accusati di violenza privata contro i membri dell’equipaggio della Vos Thalassa: i due hanno per questo affrontato un processo, all’esito del quale sono stati assolti.

I fatti a bordo della Vos Thalassa

Secondo quanto emerso durante il processo, la nave commerciale, battente bandiera italiana, soccorre i naufraghi. Il comandante comunica la situazione al centro di coordinamento, che segnala all’autorità SAR libica le informazioni necessarie per provvedere al recupero delle persone salvate. Non ricevendo riscontro dalla Libia, il centro di coordinamento invita il comandante della Vos Thalassa a fare rotta verso Lampedusa. Qualche ora più tardi, però, interviene l’autorità libica, che ordina alla nave di dirigersi verso le coste africane, per il trasbordo dei naufraghi su una motovedetta libica. Il cambio di rotta viene notato dai naufraghi a bordo che protestano animatamente: accerchiano un primo marinaio ripetendo “No Libia, no Libia”. Gli animi sono caldi, qualcuno rivolge all'indirizzo del marinaio e del primo ufficiale della nave il gesto di tagliare la gola, che viene interpretato dall’equipaggio come una minaccia, anche alla luce dello squilibrio numerico (la difesa degli imputati a processo spiegherà quel gesto come una descrizione mimata della sorte che avrebbero subito i migranti se ricondotti in Libia). Vista la tensione, il comandante invia un messaggio al centro di coordinamento, comunicando la situazione e virando verso nord. I migranti a bordo interrompono quindi le proteste, pur restando vigili nel controllare la rotta della nave.

I fatti sono stati provati in giudizio: anche se nessuno ha riportato lesioni, i membri dell’equipaggio sono stati vittime di minacce, che li hanno preoccupati al punto di desistere dal proposito di riportare i naufraghi in Libia. Ma allora perché il tribunale di Trapani ha assolto i due imputati, riconosciuti come i principali protagonisti delle proteste a bordo della Vos Thalassa?

Imputati assolti per legittima difesa

Ibrahim Bushara e Hamid Ibrahim sono stati assolti per legittima difesa. La legittima difesa non riguarda infatti solo negozianti, armi e tentativi di furto, ma è una qualunque reazione lecita a un’aggressione: si tratta di una causa di giustificazione, prevista dall’articolo 52 del codice penale.

Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un'offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa.

Non significa che qualunque violenza sia giustificata o giustificabile. Innanzitutto, chi si difende non deve avere alternativa: deve infatti essere "costretto dalla necessità", quindi non è legittima la difesa di chi avrebbe potuto comportarsi diversamente (scappando o commettendo un fatto meno grave di quello effettivamente commesso ma ugualmente efficace per difendersi). Inoltre, la reazione deve servire per la difesa di un diritto, proprio o altrui, che viene ingiustamente offeso: un rapimento e un arresto offendono entrambi il diritto alla libertà personale di un soggetto, ma evidentemente nel primo caso l’offesa è ingiusta, perché non legittima. Deve poi sussistere un pericolo attuale per il diritto in questione: si reagisce legittimamente a un rischio che è presente, che sussiste nel momento in cui ci si difende (quindi non è certamente attuale il pericolo di qualcuno che scappa). Infine, la difesa deve essere proporzionata all’offesa.

Questo percorso logico è quello seguito dal giudice di Trapani nel valutare il caso, concludendo che gli imputati avevano un diritto offeso dall’equipaggio della Vos Thalassa, che l’offesa al diritto era ingiusta e che la loro reazione era stata proporzionata all’offesa.

La Libia non è un porto sicuro

Il diritto che gli imputati difendono è il diritto alla vita, all’integrità fisica e all’integrità sessuale, sistematicamente violato in Libia e quindi offeso dalla prospettiva di trasferimento nella giurisdizione del paese. Diverse pagine della sentenza sono dedicate alla testimonianza di una delle donne soccorse dalla Vos Thalassa e alle informazioni sulla situazione libica richieste all’UNHCR.

Uomini e donne richiedenti asilo, rifugiati e migranti, inclusi i minori, sono sistematicamente sottoposti a tortura e ad altre forme di maltrattamento, compresi stupri e altre forme di violenza sessuale, lavoro forzato e estorsione, o ne sono ad alto rischio, sia in strutture di detenzione ufficiali che non ufficiali. In detenzione sono state segnalate anche discriminazioni razziali e religiose. I detenuti non hanno possibilità di contestare la legalità della detenzione o del trattenimento.

Non solo. In Libia si registra una escalation degli scontri armati tra diverse fazioni, con autorità governative ancora instabili e una situazione di guerra costante e diffusa. Inoltre, la Libia non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati: non esiste un sistema di asilo, anzi, i richiedenti protezione finiscono per scontare periodi di detenzione a tempo indeterminato nelle condizioni drammatiche dei centri.

Il soccorso in mare non si esaurisce quindi nell'evitare che degli esseri umani anneghino, ma si conclude nel momento in cui la persona recuperata in mare viene condotta a un porto sicuro (POS – place of safety): la Libia non è un porto sicuro, consegnare dei naufraghi alle autorità locali rappresenta quindi un’offesa ai loro diritti alla vita, all'integrità fisica e all'integrità sessuale.

Diritti umani, trattati internazionali e ordini illegittimi

L’equipaggio della Vos Thalassa, però, non era che l’esecutore di un ordine: l’offesa ai diritti era quindi legittima, perché frutto di obbedienza? Il giudice di Trapani è chiaro nel precisare come il rispetto al comando della guardia costiera libica da parte del comandante della nave non fosse una condotta delittuosa, ma che l’atto violava comunque i diritti dei naufraghi: per questo, la condotta dell’equipaggio era "non giusta, ma semplicemente scusata". La reazione dei migranti era peraltro anche proporzionata di fronte al pericolo attuale di un’offesa ingiusta ai loro diritti umani, visto che a contrapporsi erano, da un lato, il diritto alla vita e a non essere sottoposti a tortura, e, dall’altro, il diritto di autodeterminazione dell’equipaggio: difesa legittima e proporzionata, insomma.

Il giudice di Trapani non si limita però a un generico appello ai diritti umani e alle denunce dell'UNHCR sulla situazione in Libia, ma risale fino alla fonte dell'ordine impartito alla Vos Thalassa di consegnare alla guardia costiera libica i migranti soccorsi: il Memorandum Italia-Libia del 2 febbraio 2017. Questo accordo, negoziato da Minniti e firmato da Gentiloni e da Fayez Al Serraj, presenta numerosi vizi, formali e sostanziali, che lo renderebbero inefficace e nullo.

Dal punto di vista procedurale, bisogna ricordare innanzitutto che il memorandum è stato stipulato con un'autorità libica che è sì riconosciuta in Europa ma che non ha la fiducia e la giurisdizione sull'intero paese, con diversi dubbi sulla possibilità che la fazione in questione possa legittimamente obbligare l'intera Libia, tant'è che la Corte di Tripoli, a meno di due mesi dalla stipulazione del memorandum, lo ha sospeso in via cautelare. Se sulla validità della stipulazione sul lato libico ci sono diversi dubbi, il giudice di Trapani sottolinea come, anche sul lato italiano, il governo non avrebbe potuto siglare l'accordo: il memorandum si occupa infatti di materie coperte dalla riserva di legge prevista dall'articolo 80 della Costituzione. Questo significa che sarebbe stata necessaria la preventiva autorizzazione da parte del Parlamento, che non si è invece espresso, dal momento che l'accordo è stato concluso in forma semplificata, con il solo consenso dei rappresentanti dei due governi.

Ma è sul contenuto che l'illegittimità dell'accordo Italia-Libia emerge nella sua gravità. Demandando all'autorità libica il compito di arginare i flussi migratori, con il supporto italiano nel respingere le persone verso il paese da cui sono partite, si identifica a priori la Libia come un place of safety, un posto sicuro, nonostante, già all'epoca della stipulazione dell'accordo, la Libia non rispondesse ai requisiti di sicurezza e di rispetto dei diritti umani alla base dell'attività di search and rescue. L'Italia ha infatti ratificato la Convenzione di Amburgo del 1979, la cosiddetta Convenzione SAR, che, nel definire l'attività di ricerca e soccorso in mare, prevede l'obbligo per gli Stati aderenti di condurre i naufraghi in un luogo sicuro. Quindi, innanzitutto, il porto di approdo dopo il salvataggio non può essere una località in cui ci sia rischio di essere sottoposti a tortura o a pena di morte. Nel caso poi in cui le persone soccorse abbiano diritto di asilo, o comunque intendano richiedere la protezione internazionale, il place of safety non potrà essere un luogo, come la Libia, in cui non sia possibile presentare la richiesta, o ci sia anzi il rischio di essere detenuti o rimpatriati per questa ragione. Si tratta insomma del principio di non-refoulementDa questo principio dipende anche il divieto di respingimenti collettivi, perché in alto mare e per gruppi è impossibile esaminare la situazione personale dei richiedenti protezione, rendendo possibile il rimpatrio di coloro che avrebbero diritto di asilo e che sono quindi così condannati a subire nei paesi d'origine, o nei paesi di transito, trattamenti inumani. Il giudice di Trapani, allora, citando numerose pronunce della giurisprudenza italiana, comunitaria e internazionale, sottolinea come il principio di non respingimento abbia assunto negli anni valore di diritto cogente, così concludendo che il Memorandum Italia-Libia sarebbe nullo sia in virtù dell'articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, per via del contrasto con una "norma imperativa di diritto internazionale generale" (come appunto il principio di non–refoulement), sia alla luce dell'articolo 10 della Costituzione, che conforma l'ordinamento italiano al diritto internazionale.

Insomma, di fronte al diritto alla vita, all'integrità fisica e sessuale, non c'è accordo o ordine che tenga: finché la Libia non sarà un luogo sicuro, consegnare alla sua guardia costiera naufraghi significa offenderne i diritti fondamentali, la cui difesa è quindi legittima.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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