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Maria Rita si è ammazzata per vergogna della sua famiglia innominabile

Maria Rita Lo Giudice a 25 anni e con una brillante carriera universitaria ha deciso di suicidarsi dal balcone di casa. Secondo gli inquirenti non avrebbe sopportato la vergogna di una famiglia che da anni è tra le più influenti della ‘ndrangheta nella zona di Reggio Calabria. E forse è una vittima innocente anche lei.
A cura di Giulio Cavalli
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Venticinque anni, un futuro che si preannunciava roseo, una laurea in Economia presa con il massimo dei voti e una carriera universitaria che continuava nel corso di laurea magistrale: a vederla da fuori Maria Rita Lo Giudice aveva una vita carica di speranze e possibilità, lei che da Reggio Calabria aveva cominciato a girare il mondo per motivi di studio, e invece domenica mattina poco prima delle 7 ha deciso di affacciarsi al balcone di casa e gettarsi nel vuoto. Suicidata. Pronta a finire nel faldone di quelle storie che diventano presto solo freddi numeri buoni al massimo per le statistiche. Eppure la condanna di Maria Rita sta nel peso del suo cognome e in quella sua famiglia che lì a Reggio è sinonimo di ‘ndrangheta: secondo i carabinieri (che hanno ascoltato gli amici in questi giorni) Maria Rita non sarebbe riuscita a sopportare la vergogna della sua famiglia che a Reggio fa rima con mafia, violenza e soprusi.

Il padre Giovanni è in carcere, lo zio Nino è diventato collaboratore di giustizia mentre l'altro zio, Luciano Lo Giudice, è considerato il boss del clan. La ‘ndrina dei Lo Giudice (attiva soprattutto nel Rione Santa Caterina di Reggio Calabria) è una famiglia storica della mafia calabrese, già coinvolta nella terribile seconda guerra di ‘ndrangheta che lasciò a terra 700 morti per la definizione delle gerarchie interne. Un inferno di violenza e sangue così distante dall'espressione di Maria Rita così sorridente e luminosa nelle foto della sua festa di laurea ma che evidentemente le ispessiva il cuore.

Gli omicidi, l'usura e i cadaveri mai trovati delle vittime di lupara bianca sono fardelli che, si sa, passano nel sangue dei figli. Proprio a Reggio Calabria da tempo il presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella, sta lavorando per riuscire a "liberare" i figli delle famiglie mafiose per garantirgli un luogo di crescita lontano dall'orrore: “Quando si rendono conto di poter vivere in un mondo normale – racconta Di Bella – senza traffici strani, senza violenza, senza morti ammazzati, senza carcere e rinascono. E al compimento dei 18 anni di età ci chiedono di restare fuori da una realtà che non ritengono più di essere la loro”.

Maria Rita ha creduto di potercela fare: ha pensato di riuscire a scrollarsi di dosso quel passato familiare che odiava e ha creduto che lo studio almeno potesse portarla lontano. E invece no. E viene da chiedersi se non vada aggiunta anche lei alle vittime innocenti di mafia: suicidata dalla vergogna di una nomea che non avrebbe mai voluto e che le restava appiccicata addosso.

Chissà se un po' di vergogna non la provano anche loro, questi uomini di mafia incapaci di amare anche un figlio.

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Collaboro dal 2013 con Fanpage.it, curando le rubriche "Le uova nel paniere" e "L'eroe del giorno" e realizzando il format video "RadioMafiopoli". Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.
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