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Manlio Santanelli: ritratto di un maestro (SPECIALE VIDEO)

Abbiamo trascorso un pomeriggio a casa del drammaturgo Manlio Santanelli che ci ha mostrato la sua biblioteca e i suoi cimeli raccontandosi a tutto campo in un continuo gioco tra poesia e un umorismo graffiante e paradossale.
A cura di Andrea Esposito
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Manlio Santanelli è un drammaturgo e scrittore la cui fama non è, ahinoi, direttamente proporzionale al talento e alla portata dei testi che negli ultimi trent'anni ha prodotto. Intendiamoci: per gli addetti ai lavori e gli appassionati di un paio di generazioni fa è una figura nota, piuttosto nota, anche se forse non così “premiata”. Ci hanno pensato, di recente, i giurati del Premio Albatros, i quali appena due settimane fa, gli hanno attribuito l’omonimo riconoscimento: “in virtù del tratto linguistico innovativo e della caustica incisività dei contenuti delle sue opere teatrali sull’umano agire e dal respiro internazionale”. Il problema però si pone per quelli un po’ più giovani, o meno vecchi a seconda dei punti di vista, a cui vogliamo dedicare, nel senso etimologico di “offrire”, il video che abbiamo realizzato.

Se dovessimo raccomandare, su due piedi, alcuni titoli della sua lunga bibliografia tanto per farsi un'idea, diremmo scolasticamente "Uscita d'emergenza" (1978) o  "Il baciamano" (1993), ma quello piu' tradotto e apprezzato anche all'estero è "Regina Madre" che a suo tempo, correva l'anno 1984, fu recensito entusiasticamente nientemeno che da Eugène Ionesco, come ci ha raccontato lo stesso Santanelli mostrandoci l'articolo, incorniciato e posto in bella vista nel soggiorno, nella sua casa napoletana. Casa che, tra le altre cose, è un autentica oasi di pace, con tanto di giardino-selva lasciata saggiamente incolta e “selvaggia”. Pur essendo, il tutto, situato in quel labirinto verticale, un po’ De Stijl, un pò palazzinaro, che è il quartiere Vomero, almeno nel triangolo compreso tra Piazza Medaglie d’Oro, Rione Alto e l’Arenella.

Ad ogni modo, la nostra conversazione è iniziata proprio in giardino, ma prima, a me che gli chiedevo di stare “in posa” per alcune inquadrature d’ambiente, rivolgeva già battute sagaci e autoironiche come: “mò mi fai sembrare una specie di Salgari in mezzo a sto boschetto!”. Subito dopo però iniziamo sul serio a parlare e Santanelli mi racconta un episodio della sua infanzia, tragico e ironico allo stesso tempo e che rivela già la vena paradossale tipica della sua poetica: "Ho quattro anni, quando nel porto della mia città salta in aria una nave carica d’esplosivo, disintegrando tutti i vetri delle case. Mio padre, medico, ma soprattutto stratega di vaglio, ricorre ad un collega radiologo che gli fornisce un gran numero di radiografie. Usate, purtroppo: quelle nuove servono a lui. Le radiografie, applicate alle finestre, si rivelano sufficientemente protettive contro pioggia e gelo. Ma allo spuntar del sole pareti e pavimenti si popolano di teschi e casse toraciche, di tibie ed ossa pelviche d’ogni foggia e patologia. Si parla dell’infanzia come di un periodo di formazione. E di deformazione no?, dico io".

Rientrati in casa Santanelli ci ha poi raccontato quali sono state le letture che lo hanno formato – casa sua è stipata di libri, circa 5000 volumi secondo i suoi calcoli, disposti in ordine alfabetico – da Thomas Mann a Musil a Kafka e Proust, ma anche gli autori sudamericani che ama particolarmente: "Trovo Marquez un autore eccezionale e mi piace pensare che la sua incredibile fantasia si anche un po' nostra, nel senso che credo lui abbia amato molto i nostri grandi poemi epici del Rinascimento come, ad esempio, "l'Orlando Furioso".

Quando poi gli chiediamo una previsione sul teatro del futuro, su cosa puntare, su quali temi prediligere, lui prima scherza dicendo “non lo so, non sono un indovino” poi sfodera un ragionamento tanto breve e semplice quanto prezioso e profondo: “Il teatro, e la scrittura in generale, devono raccontare la realtà… trasfigurandola però, altrimenti si rischia di fare della cronaca. Ciò che però credo possa essere da guida è la necessità di non perdere mai di vista, dietro a ciò che si scrive, l’archetipo. Poiché l’archetipo, pur essendo millenario, muta continuamente nei suoi aspetti esteriori, sfugge, ma non smetterà mai di raccontare l’essere umano. Roba da scolpire sulle facciate dei palazzi.

Qualcosa d’improvviso si accende in lui quando, tra una chiacchierata e l’altra in giro per la casa, impugna la sua chitarra se la sistema alla maniera classica (non sdraiata sulle gambe a mo di falò per intenderci) e inizia a intonare una musica gitana, perdendosi tra le note. Poi mi parla della sua passione per il tennis, di autori dell’est che a stento ho sentito nominare, mi mostra un libro regalatogli da un non precisato regista russo che, aprendosi, lascia risuonare l’inno nazionale… ma è impossibile raccontare tutti gli spunti e le suggestioni di un incontro così ricco e piacevole con un Maestro così fuori dall'ordinario.

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