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Ma Rosy Bindi ha davvero torto?

Tutti gli articoli che hanno commentato la dichiarazione di Rosy Bindi, hanno perseguito una logica manichea. Ci si è schierati a favore o contro senza affrontare una riflessione pacata che avrebbe dovuto far riflettere sul ruolo e sulla funzione della Napoli postunitaria.
A cura di Marcello Ravveduto
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Tutti gli articoli che hanno commentato la dichiarazione della Presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, hanno perseguito una logica manichea. Ci si è schierati a favore o contro inseguendo il dibattito politico senza affrontare una riflessione pacata che avrebbe dovuto far riflettere sul ruolo e sulla funzione della Napoli postunitaria. I vari commentatori si sono accapigliati sul termine «costitutivo» in maniera barocca e speciosa, come se la camorra fosse il prodotto di un’errata interpretazione della lingua italiana e non il portato storico di condizioni sociali, culturali e civili sedimentatisi in un lungo periodo. Addirittura si è giunti ad accusare la Bindi di aver detto che la camorra è nel Dna di Napoli, costringendola, evidentemente, a una replica sacrosanta: a tutti è noto che il codice genetico precede i fattori costitutivi, anzi senza questo quelli non esisterebbero.

Lo scrittore Erri De luca ha lanciato un tweet in cui ha scritto: «Camorra elemento costitutivo di Napoli? Come dire che le pulci sono costitutive del cane. Identificare il parassita con chi lo subisce». Una bella provocazione che richiama purtroppo l’ormai trito e ritrito stereotipo della camorra parassita della società napoletana, dimenticando, però, di ricordare (ma in 140 caratteri è difficile) che il parassitismo è una forma di simbiosi tra l’ospite e l’ospitante.  E cos’è la simbiosi? Vediamo come la definisce Wikipedia: «Per simbiosi… in ecologia si intende un'interazione biologica piuttosto intima, di lungo termine, fra due o più organismi (anche se in senso lato, indica una qualsiasi interazione fra organismi)». E se non dovesse bastare la definizione wikipediana potremmo ricorrere a quella della Treccani: «Associazione intima, spesso obbligata, fra organismi (animali o vegetali) di specie diverse, che generalmente comporta fenomeni di coevoluzione». Quindi i due protagonisti della simbiosi evolvono insieme anche quando il rapporto instaurato è di natura parassitaria.

Ma oltre alla definizione biologica ne esiste una di natura psicologica: «La simbiosi umana, in campo psicologico, è una forma di pensiero che determina un tipo di comportamento di stretta dipendenza. Per esempio si parla di relazione interpersonale simbiotica, come l'amicizia simbiotica, l'amore simbiotico o un matrimonio simbiotico, quando una persona o entrambe dipendono dall'altra, al punto da stare male o morire, quando quella stessa persona si allontana o viene a mancare». Oppure, per essere ancora più precisi: «Rapporto di stretta dipendenza fisica e psicologica tra due individui… La relazione di dipendenza è però reciproca. Quando il vissuto simbiotico si prolunga oltre il termine fisiologico, impedisce il naturale processo di crescita e – nel linguaggio della psicoanalista Mahler – di separazione-individuazione». Anche in questo caso siamo di fronte ad un rapporto di interdipendenza reciproca che diventa fattore costitutivo del ciclo vitale dei due simbionti (ovvero dei due soggetti in simbiosi). Ecco, a voler attaccare l’affermazione della Bindi a tutti i costi si rischia di darle ragione.

Non è un caso allora se tra le comparazioni più diffuse, attraverso le quali si prova a spiegare il fenomeno camorristico, vi sia quella dell’organismo vivente dotato di capacità adattiva all’habitat circostante. Si potrebbe dire che la camorra metabolizza il mutare delle condizioni inglobando nella sua struttura gli elementi di novità senza alterarne il substrato culturale. Cioè la camorra ha integrato, rielaborato e riadattato i modelli criminali urbani adeguandoli al progredire della società dei consumi di massa. La capacità adattiva le ha consentito di superare indenne i diversi passaggi storici con una continua oscillazione tra arcaismo e modernità. Il suo processo evolutivo è in simbiosi con il contesto metropolitano, fondandosi su una coesistenza di permanenze e trasformazioni che mescola società, economia e cultura in un unico amalgama.

Se proprio vogliamo insistere con il gioco dei paragoni si potrebbe contrapporre all’immagine della “piovra” di Cosa nostra quella della “medusa”. La medusa ha movimenti coreici, striscianti, indefiniti, di consistenza molle. Le sue propaggini sono pericolose e si adattano all’ambiente circostante, le sue sono forme cangianti e mutevoli. La camorra ha, dunque, una struttura gelatinosa capace di incorporare i cambiamenti dando luogo ad una pluralità di bande che assumono diverse modalità organizzative a seconda dei momenti storici e dei territori in cui si sono radicate. È un “blob”, una gelatina che riempie tutti gli interstizi sociali lasciati vuoti dallo Stato. Un modello criminale flessibile, poco gerarchico, decentralizzato, diverso dalla cupola mafiosa, che si adatta a seconda delle evenienze.

Il “blob” gelatinoso della camorra è il simbolo di una comunità criminale che si mimetizza nella multiformità della società contemporanea, unendo tare culturali e contestuali ad aspetti sociali e residenziali. Mentre la mafia si alimenta in uno stringente rapporto con segmenti formali dello Stato, la camorra si stratifica attraverso il controllo di più azioni illegali e molteplici livelli d’interrelazione: un’organizzazione comunitaria orizzontale doppiamente congiunta alla dimensione territoriale e ai rapporti personali.

La capacità adattiva e la pluralità hanno dato vita a due forme criminali: la camorra/mafia del clan dei casalesi e la camorra/metropolitana di Napoli. Due modelli coesistenti, in un unico territorio regionale, che racchiudono l’arcaismo del mondo rurale e il modernismo urbano. Nel primo caso siamo di fronte alla “camorra di provincia” che somiglia molto, nella struttura e nella organizzazione piramidale, a Cosa Nostra; nel secondo caso possiamo parlare di “camorra di città” che agisce come coagulo di un precario ordine criminale all’interno del disordine urbano. Quest’ultima, rispetto alle altre mafie autoctone, è l’organizzazione più originale perché sfrutta a suo vantaggio la conurbazione metropolitana di Napoli con gerarchie poco definite e un’organizzazione trasversale in cui non esiste un “capo dei capi”. La camorra urbana, quindi, è in simbiosi con il contesto sociale e alimenta un rapporto di scambio e di servizi con le bande della micro-criminalità: un miscuglio che agisce nell’interesse di cogliere investimenti redditizi.

Rispetto a Cosa Nostra mostra di avere un rapporto debole con lo Stato e un diverso controllo dei territori. L’assenza di una cupola impedisce al clan di estendere il suo dominio nelle zone limitrofe. Ciò comporta una capacità di radicamento capillare, ma un raggio d’azione limitato. Dunque, ha un’accezione criminale informale, mentre la mafia è legata ai suoi formalismi paranoici. Gli affari si sviluppano nella precarietà dell’alleanza tra bande e non all’interno dell’unità inamovibile della cosca.

Se la mafia è “signoria territoriale”, la camorra è “comunitarismo territoriale”, se la mafia è espressione gerarchica del potere, la camorra è ordine momentaneo nel disordine metropolitano. Se la mafia è unità, la camorra è frammentazione. Se la mafia organizza gli interessi in cartelli economici che gestiscono traffici internazionali, la camorra si interessa di tutti gli aspetti illegali presenti nella marginalità. Questo non significa che la camorra non è interessata ai traffici criminali, ma che controlla il territorio attraverso la penetrazione nel magmatico mondo dell’illegalità. Il suo essere orizzontale, metropolitana e frammentata, con una forte connotazione di classe, la rende simile a una forza proletaria, lontana dall’evoluzione borghese mafiosa che hanno subito le altre mafie. Non c’è stata una crescita tesa ad ottenere un riconoscimento di legittimità nella società civile attraverso la rappresentanza elettorale. La camorra metropolitana esiste e sopravvive anche in assenza di rapporti con la politica, alimentandosi direttamente nel tessuto sociale della città.

Questa evoluzione, tuttavia, riguarda la trasformazione avvenuta nel passaggio tra la Napoli borbonica e quella unitaria. Questo è l’inghippo non svelato che si nasconde dietro l’affermazione lapidaria della Bindi. Nessuno mai si sognerebbe di dire che la camorra è parte integrante della millenaria cultura partenopea, ma è del tutto evidente il ruolo giocato dalle classi dirigenti locali e nazionali nella fase postunitaria. Troppo spesso dimentichiamo o sottovalutiamo il fatto che Napoli è diventata italiana, senza colpo ferire, grazie allo stratagemma di Liborio Romano. Non si tratta di un mito o di una favola, ma di storia. Napoli entra nello stato nazionale grazie all’azione collusiva della camorra. Questa cesura non può essere ignorata. Quelli che per i Borbone erano criminali plebei, per lo monarchia sabauda diventano massa di manovra, di cui disfarsene appena possibile, per evitare esplosioni popolari o sacche di resistenza urbana.

Sia chiaro non voglio dire che con il Regno della Due Sicilie si stava meglio o che questi criminali non erano pericolosi. Il mio intento è sottolineare una crisi di passaggio troppo a lungo sottovalutata. Una crisi che nel giubileo risorgimentista è passata in secondo ordine. Lo stato nazionale, attraverso la mano di don Liborio, ha usato la camorra per accreditarsi e imporre un nuovo ordine, ordine nel quale viene integrata la camorra. Eppure tutti i più grandi storici della città non hanno mai affrontato fino in fondo questo tema per paura di essere tacciati di neoborbonismo. Oggi che abbiamo messo da parte le ideologie, dovremmo con serenità avviare una sacrosanta discussione sulle origini del rapporto tra Stato e mafie quale strumento di controllo della violenza delle masse popolari.

La camorra non è assolutamente un fenomeno genetico della città, ma è sicuramente un fattore costitutivo della sua evoluzione storica provocato dal trauma del passaggio unitario. Tutta la polemica è montata perché l’affermazione è venuta da Rosy Bindi, ma mi domando: se la stessa dichiarazione fossa stata resa da uno dei tanti camorrologi da passeggio ci sarebbe stata la stessa levata di scudi? Ogni volta che un esponente della classe dirigente nazionale, non napoletano, prova a parlare dei problemi della città viene rintuzzato dal refrain stereotipato e giustificazionista del "se non sei di Napoli non puoi capire". Dietro questa frase si nasconde il portato storico di una città che non ha elaborato il lutto dello status di Capitale.

Se i napoletani vogliono essere aiutati devono mantenere l'orgoglio meridionale e perdere la prosopopea della nazione perduta perché la camorra è un fattore della Napoli italiana e, quindi, un problema che riguarda l'intera Repubblica. Purtroppo ogni volta che si tratta questo argomento entrano in campo i media e la politica con la solita retorica stantia della camorra quale corpo estraneo alla città (per paura di subire il razzismo dei settentrionali, al cui atteggiamento culturale in parte è dovuto lo sviluppo di questa forma criminale); ma la storia, permettetemi, è un’altra cosa.

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