66 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Licenziata per un post su Facebook, per la Cassazione è giusta causa

La donna si era sfogata con messaggi fortemente critici sull’azienda dopo una nuova modifica agli incarichi che le venivano assegnati. Il post però era stato letto dall’amministratore che l’aveva licenziata. Per i giudici è una giusta causa in quanto le frasi diffamatorie hanno rotto il vincolo fiduciario con l’azienda.
A cura di Antonio Palma
66 CONDIVISIONI
Immagine

Criticare su facebook l’azienda per cui si lavora può costare il proprio posto di lavoro. Lo sa bene a sue spese un'impiegata forlivese  di 43 anni licenziata in tronco per giusta proprio dopo aver scritto sui social frasi fortemente critiche sulla società per cui lavorava. Come riporta il Resto del Carlino, infatti, nei giorni scorsi anche  la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della donna contro i licenziamento, dichiarando dunque legittimo l'allontanamento. La vicenda risale al maggio del 2012 quando, dopo un nuova modifica agli incarichi che le venivano assegnati, la 43enne (invalida civile al 67%) con il suo cellulare scrive sulla sua pagina Facebook un post  con espressioni volgari e inequivocabili che recitava: "Mi sono rotta i c…. di questo posto di m….".

Tra gli amici della donna sul web però c'era anche il legale rappresentante dell'azienda che lesse il post e avvio le procedure per una lettera di contestazione che a fine mese portò al suo il licenziamento. Il post fu cancellato ma la donna decise di impugnare l'atto davanti al tribunale del Lavoro. I giudici però le hanno dato torto  sia in primo grado che in appello giudicando scorretto il suo comportamento. Secondo i magistrati infatti "I social sono uno spazio pubblico, nel quale i contenuti potenzialmente diffamatori possono trovare un vasto eco. È venuto meno, in buona sostanza, il vincolo fiduciario che deve esistere tra azienda e dipendente".

La stessa sentenza infine è stata ribadita anche dalla Cassazione che quindi ha reso definito il licenziamento in quanto la condotta della dona "integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo". Per la suprema corte infatti "la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Scrivere un post sul social realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso per l'idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone con la conseguenza che, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili". La donna quindi non verrà né risarcita né reintegrata, l'azienda ha deciso comunque di non sporgere denuncia per diffamazione.

66 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views