2.997 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

La storia di Liviana Rossi, morta a 22 anni nel tentativo di resistere a uno stupro

Liviana Rossi, studentessa romagnola del Dams si trasferisce in Calabria nell’estate del 1983, per un lavoro estivo. Doveva essere un’indimenticabile vacanza prima degli esami, invece sulle spiagge di Torretta Crucoli, la 22enne trova la morte. Soffocherà durante uno stupro al quale stava tentando disperatamente di resistere. Al suo aggressore quattro anni di carcere, per lei solo parole di biasimo del profondo Sud: “Se l’è cercata”.
A cura di Angela Marino
2.997 CONDIVISIONI
Immagine

Liviana Rossi è morta a 22 anni durante uno stupro al quale stava tentando disperatamente di opporsi. È morta con la faccia schiacciata sulla sabbia, il corpo graffiato, la dignità rubata. Trentacinque anni dopo quel martirio subito da Liviana per aver negato di concedersi e aver difeso la propria libertà di scegliere, nessuno ricorda il suo nome.

I fatti

Liviana Rossi aveva 22 anni quando è stata uccisa. Era l’estate del 1983 e lei, studentessa del Dams, originaria di Borgo Mesola (Ferrara), aveva deciso di passarla sulle coste calabresi dividendosi tra il lavoro estivo e le uscite con gli amici. Da luglio, infatti, aveva trovato lavoro in un albergo ristorante a pochi chilometri da Crotone, il ‘Costa Elisabeth' di Torretta di Crucoli, diretto da Pietro Di Leone. Lui, 48 anni, aveva messo gli occhi su di lei, ma Liviana non era interessata. Accade così che la notte del 3 luglio, dopo una serata passata in discoteca con gli amici, Liviana decida di andare a prendere il fresco in spiaggia. Lascia l'amica Bruna a casa a guardare la tv ed esce da sola. Gli amici la perdono di vista per qualche ora e dopo averla cercata la ritrovano in spiaggia, distesa con testa appoggiata su un braccio. Sembra serena, ha i suoi vestiti addosso, ma quando fanno per svegliarla si accorgono che non sta affatto dormendo. Liviana è morta da diverse ore.

Le indagini

L’indomani scatta la macchina investigativa. L'autopsia, disposta per determinare la causa di una morte che appare misteriosa, evidenzia subito una strana ferita sul capo, compatibile con un colpo su qualcosa di duro, come un sasso, mentre sul corpo appaiono diverse lesioni. "È caduta dalla scale", è la prima frettolosa tesi, ma quando un esame più attento evidenzia la presenza di sabbia nelle vie respiratorie, liquidare quella morte come un incidente non è più possibile. La povera Liviana, come raccontano quei segni, è stata tenuta con forza con la faccia premuta sulla sabbia, restando soffocata. Il motivo è evidente: è stata violentata.

La morale alla rovescia: ‘Le sta bene'

Sette mesi dopo, Pietro Di Leone, il datore di lavoro della studentessa, viene arrestato in relazione al delitto. Il titolare del Costa Elisabeth finisce sulla bocca di tutto il paese per quell’episodio, non c'è bar o negozio dove non si parli di quel maledetto 3 luglio. Il tenore di quei commenti, tuttavia, è molto insolito. Per lo stupratore, paradossalmente, ci sono parole di comprensione e solidarietà. La sua sola colpa, per il paesello del profondo Sud, è solo quella di aver reagito, da vero macho calabrese, alle pulsioni suscitate da quella ragazzina. A lei, invece, sono riservate le parole di biasimo. Che cosa ci era venuta a fare quella ragazzina hippy, con le sue strampalate teorie femministe, in un posto così lontano da casa? E cosa faceva sulla spiaggia a quell’ora? Aveva bevuto? Era drogata?.

La campagna denigratoria

La morale, nell'Italia post sessantottina, è che una giovane studentessa con un preciso orientamento ideologico (Liviana era iscritta all’Udi, Unione Donne Italiane) che esercita il suo diritto a vivere come crede si sia meritata di morire stuprata. Non sono passati che sette anni da quanto le femministe avevano sostenuto Donatella Colasanti al processo per il massacro del Circeo, e il pensiero comune è già cambiato. Ma quella era Roma, certo, non il Sud che plaude con un sorrisetto compiaciuto le imprese del latin lover. E se la ragazza era morta, non era colpa sua, era stata solo una disgrazia accidentale. Per un pelo la linea popolare non diventa quella della giustizia, che inizialmente si apprestava ad archiviare il caso, per poi portare Di Leone a giudizio.

L'epilogo

Nel 1988, quattro anni dopo lo stupro di Torretta di Crucoli, Di Leone viene condannato. L’omicidio volontario viene derubricato a colposo portando a una condanna a quattro anni di carcere. Solo quattro, una pena troppo lieve per il messaggio che portava in sé. Prevaricare una donna per il proprio piacere sessuale non è poi così grave, neanche se poi muore.

2.997 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views