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La giornata mondiale della poesia: i versi di tre poeti d’oggi per celebrarla

Abbiamo deciso che il modo migliore per celebrare La Giornata Mondiale della Poesia fosse raccontare e commentare i versi di tre poeti di oggi, dato che la poesia contemporaneea sembra essere ben lontana dall’essere il linguaggio privilegiato del presente. Mark Strand, John Ashbery e Antonella Anedda, nomi non necessariamente conosciuti al vasto pubblico, possono dischiuderci il suo universo.
A cura di Luca Marangolo
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Oggi è la giornata mondiale della poesia. In verità la poesia non gode di molto credito oggi. Certo, in astratto, la media delle persone risponderebbe che non c’è nulla di più sublime, di più importante per l’uomo della creatività, e cose del genere. Ma basta dare uno sguardo a quello che vuol dire consumare poesia o scrivere poesia oggigiorno. Scrivere poesia vuol essere isolati, significa essere relegati, essenzialmente, ad avere l’attenzione di un gruppo ristrettissimo di  persone;  persone che talvolta sono concentrate più su se stesse che non sulla poesia in sé; significa avere in mercato editoriale quasi nullo.

Il filosofo Martin Heidegger ripeteva che la poesia è il modo privilegiato per abitare la realtà, è, cioè, un modo per entrare in contatto con il proprio ambiente in forma nuova, riscoprirlo nella sua autenticità. Significa percepire la nostra “gettatezza”, come diceva lui, il fatto che siamo gettati di un mondo più vasto,  che la poesia promette di spalancarci, aumentando la nostra Weltlicheit, l'ampiezza del nostro sguardo su di esso.

Per celebrare adeguatamente la giornata mondiale della poesia vorremmo commentare brevemente i versi di tre poeti, tre poeti contemporanei, per sottolineare al meglio questo profondo legame fra versificazione ed esistenza.

Qualcuno stava dicendo
qualcosa riguardo ombre che coprono il campo, riguardo
lo scorrere dell'esistenza, di come ci si addormenti verso il mattino
ed il mattino passi.

Qualcuno stava dicendo
di come il vento muoia ma poi ritorni,
di come le conchiglie siano le bare del vento
ma il tempo continui.

Era una lunga notte
e qualcuno disse qualcosa riguardo a come la luna perdeva il suo
bianco
sul freddo campo, come non ci fosse nulla davanti a noi
oltre le solite cose.  (L'ora Tarda, 1978)

Queste sono tre strofe tratte da The late hour, ed è uno squisito, piccolo, notturno di Mark Strand. Strand è deceduto drammaticamente, dopo una vita dedicata alla scrittura e alla poesia, il 30 novembre scorso a causa di un cancro.

La sua è una lirica commossa, semplice e immaginativamente ricchissima; e in questi versi è palese la sua capacità di invadere lo spazio di immaginazione poetica, che è in grado di stendere su tutto ciò che tocca un sottile strato di surreale, in cui metafora e descrizione sono tenute insieme da un dettato semplice e da una capacità di descrivere spazi, silenzi e luoghi con uno stile inconfondibilmente piano e meraviglioso. Il suo talento consiste nel trapassare gli oggetti  e l’ambiente con le parole poetiche  ed è una delle cose che lo hanno reso unico: in questi versi è evidente.

Questa stanza

La stanza in cui entrai era il sogno di questa stanza.
Certo tutti quei piedi sul sofà erano miei.
Il ritratto ovale
di un cane ero io in piú tenera età.
Qualcosa riluce, qualcosa viene azzittito.
A pranzo mangiavamo pastasciutta tutti i giorni
tranne la domenica, quando una quaglia veniva indotta
a esserci servita. Perché ti dico questo?
Nemmeno sei qui. (Autoritratto in uno specchio convesso, Garzanti, 1983 )

Nella eccellente traduzione di Aldo Busi, questo lavoro del poeta americano John Ashbery intitolato The Room testimonia il suo immaginario stralunato e ardito;  il suo linguaggio è tutto pervaso da un’ironia sofisticatissima nei confronti dell’esperienza: sogno e realtà si fondono in un meraviglioso gioco della coscienza (e sulla coscienza), che però è anche modificazione dello spazio poetico, una profonda carica di straniamento che coinvolge ricordo della vita vissuta e fantasia allo stesso tempo, solleva e stimola la mente del lettore permettendogli di rompere la gabbia concettuale in cui la linearità della successione di significati imposta dalla vita di tutti giorni la mette in trappola.

Pensi davvero che basti non avere colpe per non essere puniti,
ma tu hai colpe.
L’aria è piena di grida. Sono attaccate ai muri,
basta sfregare leggermente.
Dai mattoni salgono respiri, brandelli di parole.
Ferri di cavalli morti circondano immagini di battaglie
Le trattengono prima che vadano in un futuro senza cornici. ( Dal Balcone del corpo, 2007)

Questi versi sono tratti da L’aria è piena di grida, una bella poesia di Antonella Anedda, artista che si è distinta in Italia per la forza e la ricercatezza del linguaggio poetico, e questa è una delle sue poesie più riuscite:   i versi lasciano trasparire dal linguaggio quasi un urgenza fisica, attraversata da una non trascurabile tensione drammatica che ne plasma l'originale tessuto di metafore.

Lo stile di Antonella Anedda è colto ed essenziale allo stesso tempo –cosa non scontata- e in questa poesia memoria e spazio si sovrappongono: la descrizione trasfigura il senso del passato, una riflessione concettuale sulla storia e sulla responsabilità dell’individuo di fronte ad essa. È una delle voci più mature delle ultime generazioni di poeti e a chi non ha avuto modo di conoscerla è riservato, se vorrà, un bell’incontro.

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