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La ballata del latte versato: storia di pecore, pastori e di una battaglia lunga cent’anni

Il latte bianco versato nelle strade. L’assalto ai caseifici. Una battaglia antica, quella dei pastori sardi, che si ripete uguale da cent’anni. Un racconto poetico struggente, capace di farci riflettere su una storia di soprusi che affonda le sue radici nell’Isola fin dai tempi più oscuri del fascismo.
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A cura di Andrea Melis
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Sono una pecora nera.
Anche mia madre lo era.
E la madre di mia madre.
I nostri occhi vitrei
guardano passare inespressivi
i fatti degli uomini
come si guarda scorrere un treno.
Le mie mammelle danno latte bianco
come quelle di mia madre
e della madre di mia madre.
Mastichiamo erba buona
ed erba cattiva
davanti ai binari della storia.

Sono fortunata:
bruco nelle campagne sarde
terra di grandi pascoli e di rari acquedotti.
E ascolto i lamenti dell’uomo.
In cento anni
neppure le mani degli uomini sono cambiate:
la fatica, i calli, le rughe, il gelo.
La durezza della vita che condividiamo da sempre,
uomini e bestie.
Cento anni di battaglie si sono abbattute
sulle nostre carni, sui nostri pascoli,
sul nostro latte.

No: non tutte le mani sono come le mie,
sputa tra i denti il mio padrone,
come mi leggesse i pensieri.
Ci furono mani che poterono studiare:
ai figli più ricchi del mio paesello erano concessi tre posti
in città, al Convitto Nazionale.
Pastori che potevano studiare e decidere
se fare del bene o del male…
Sputa lontano il mio padrone
mentre mi munge i capezzoli
con ritmo preciso e primordiale
I Calli delle mani
onorano l’agricoltore
più che il nastrino
le giacche del signore

stava scritto allora sui muri della scuola.
Ma era una menzogna.

Il nostro pascolo diede i natali
a due notabili in camicia nera,
P. e A., figli dello stesso paesello
che lottarono per il potere
come Caino e Abele.
P. ebbe la meglio
fascista della prima ora
illuso di poter domare Mussolini
l'unto del Signore
e la sua corte di sodali affaristi
i veri fornitori di ideali
oggi come allora.

Hai sentito Nerina?
Ieri abbiamo assaltato un caseificio a Bortigali,
e tutte le strade sono bloccate.
Si versa il latte per terra,
meglio buttarlo che venderlo.
Lo comprano a sessanta centesimi di euro al litro,
produrlo ne costa di più.
Hai sentito Nerina?
Ne parlano tutti i giornali.
Ma tra poco ci sono le elezioni,
e verranno i signori a dirci che risolveranno tutto,
e non risolveranno nulla…
Sputa lontano il mio padrone,
come sputava il padre di suo padre.

È uno schifo Nerina
oggi come cento anni fa.
A quei tempi la Sardegna
produceva solo formaggio della malora,
di pasta bianca, detto di “Barcellona”.
Tra i peggiori al mondo.
Di buono aveva solo che non si guastava per mare.
Lo venivano a prendere le navi ogni due anni,
nel mentre restava immerso in salamoia.
Veniva fatto negli ovili dentro grandi tinozze
ed era più sale che formaggio.
Si vendeva solo in Grecia e Turchia.
Così arrivarono i grandi industriali da Roma e Napoli.
Misero su stabilimenti moderni.
E lavorarono il nostro latte alla maniera del loro famoso pecorino
che tanto andava forte in America.
Iniziammo così a vendere il latte
e smettemmo di fare il formaggio.
Sembrava vantaggioso,
non sapevamo cosa volesse dire monopolio,
né allevare una serpe in seno…

Ma P. il fascista aveva studiato,
e riunì gli allevatori e i caseifici
per sfidare i grandi industriali.
Gente dai cognomi importanti
che ancora oggi riempiono gli scaffali.
Si producevano un milione e ottocentomila ettolitri di latte
ma solo un terzo si consumava.
Il latte durava poco,
i frigoriferi erano un lusso lontano,
e cento chili di formaggio si vendevano a 1.850 lire.
Per farli servivano seicento litri di latte pagati una miseria,
più 60 lire per stagionarlo e salarlo,
più 50 lire di imballo e trasporto,
per un totale di lire 830.
Questo si metteva in tasca il pastore,
ai tempi del padre di mio padre.
E 1000 lire tonde tonde si metteva in tasca il padrone.
Ora capisci Nerina
perché vennero in Sardegna da Roma e Napoli,
dalla Toscana e la Puglia?
Qui c’erano duecentomila quintali di formaggio da fare.
Ma i nostri pastori erano fermi a un pentolone che bolliva.

Il nostro latte finì nel pecorino romano.
Ma P. riuscì ad associare 49 latterie di 21 paesi.
E fece mandare 200 quintali del miglior formaggio
fino in America, a mo' di assaggio.
Era buono, il Fiore Sardo, fatto come non si era mai visto
da gente che aveva studiato, ed ebbe successo.
P. divenne onorevole
e Presidente della cooperativa del latte,
e s’imbarcò per l’America col plauso del Duce.
Partiva da una terra deserta di gente e di quattrini,
ma comandava un esercito di due milioni e mezzo di ovini.
S’imbarcò da Napoli sul transatlantico «Colombo»
e dopo 14 giorni di tempesta
giunse a New York e strappò un accordo
per 50 mila tonnellate di formaggio all’anno
con il grossista della Galle&C.
Una cosa mai vista,
fischiò tra i denti il mio padrone,
come fischiava cento anni prima il padre di suo padre.

A Macomer, paese di caserme al centro dell’isola,
si costruì una moderna centrale chiamata Cremeria,
con un compressore ad ammoniaca per refrigerare i prodotti,
caldaie a vapore, un laboratorio chimico.
S’installò il macchinario più moderno d’Europa
per fare il burro e uffici con gente che aveva studiato
come vendere e far di conto.
Il tutto costò un milione di lire,
ma fu ripagato subito
coi guadagni del primo anno.
Un anno troppo presto dimenticato,
il MilleNovecentoVentiSei.
Si fecero Seimila quintali di formaggio,
e si vendettero tutti per Nove milioni di lire,
più della metà all'America.
Arrivarono nel nuovo mondo che erano bellissimi:
l’etichetta disegnata da un artista di Cagliari,
le cassette di legno commissionate al miglior falegname,
le forme tonde, gialle, regolari, ben imballate,
brillavano mentre i portuali
le issavano al sole sul piroscafo «Biancamano».

All'arrivo del primo carico giunse un cablogramma urgente
della ditta Galle&C. che dall'America si complimentava:
mai conosciuto formaggio più buono.
Una cosa mai vista, fischiò tra i denti il mio padrone,
come fischiava cento anni prima il padre di suo padre.
La nostra ricotta e il nostro burro
si vendevano come pane dai Balcani al Medio Oriente,
e il prezzo del latte da una lira e quaranta,
schizzò a 2,30 lire al litro.

Ma gli affamatori del popolo
non potevano mica guardarci ingrassare
in silenzio.
Gli affamatori del popolo
hanno mani ovunque di piovra,
e denti aguzzi
capaci di azzannare anche i dittatori…

Il 18 agosto 1926 Mussolini fece il discorso di Pesaro
dove lanciò la famosa “Quota 90
giurando al popolo che il cambio lira/sterlina
non sarebbe sceso sotto al rapporto 1 a 90.
Per mantenere la folle promessa
si tagliarono i salari,
crollarono i prezzi,
ridussero il denaro contante
sostituendolo con carta straccia
chiamata "Buoni del tesoro",
ci isolammo dalle altre nazioni,
ci lanciammo nell'autarchia,
nella battaglia del grano,
ma tutto il mercato crollò.

Era il momento che A. aveva aspettato a lungo,
si alleò a interessi indicibili,
che facevano capo a nomi pesanti,
i Farinacci, i Turati e chissà chi altri
e sferrò un attacco violento al suo rivale,
smosse denunce e minacce
passò dossier ai giornali
e il compiacente Ministero degli Interni
aprì subito inchieste pesantissime.
Tra processi e veleni,
nel 1928 la produzione della FEDLAC rimase invenduta
e l’anno dopo le latterie scoraggiate
ricominciarono a vendere ciascuna per sé.

Il disastro era compiuto: nel 1929
gli industriali del latte
poterono di nuovo imporre il prezzo a proprio piacimento.
Il costo di un litro precipitò a 1 lira e 20 centesimi.
Il più basso di sempre.
Il formaggio calò a 1300 lire al quintale.
P. fu fatto fuori dal partito fascista,
ed A. preso il suo posto, poté trionfare
lungo il suo viale lastricato di latte.
Valeva così poco, ormai,
che quasi conveniva buttarlo via.
Hai capito Nerina?
Sputa lontano il mio padrone,
ma io non posso rispondere.

Sono soltanto una pecora
che bruca in campagne fatte di grandi pascoli
e rari acquedotti,
e ascolto i lamenti degli uomini
mentre mastico erba buona
ed erba cattiva.
Come la madre di mia madre,
oggi, come cento anni fa
porgo il mio latte
alla mano che arriva.

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Andrea Melis (Cagliari, 1979), grafico, videomaker e scrittore, ha pubblicato articoli di cultura, interviste, inchieste e racconti per riviste e quotidiani nazionali e stranieri. Tra i membri fondatori del Collettivo Sabot, ha firmato romanzi insieme ad autori come Massimo Carlotto e Francesco Abate, tra cui Perdas de Fogu (E/O, 2008). La sua prima opera in poesia, #Bisogni, una selezione di versi autoprodotta in mille copie grazie a una campagna di crowdfunding, è andata esaurita in poco più di un mese. Il suo ultimo libro è edito da Feltrinelli, Piccole tracce di vita. Poesie urgenti (2018). Collabora come autore di testi con artisti, illustratori, fotografi, musicisti e compagnie teatrali di tutta Italia. Scrive editoriali poetici per FanPage.it
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