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Italiani rapiti in Libia: “In Africa per arrotondare la pensione, per resistere ridevamo”

Il racconto della drammatica esperienza di Danilo Calonego e Bruno Cacace i due tecnici italiani rapiti in Libia e liberati dopo 48 giorni di prigionia.
A cura di Antonio Palma
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"Sono un meccanico. Controllo le macchine del lavoro, i rulli, la finitrice. Un lavoro tecnico che facevo anche in Libia e che a me serve anche per arrotondare la pensione, quei quattro soldi che mi dà lo Stato", così Danilo Calonego, il tecnico settantasettenne rapito e liberato in Libia dopo 48 giorni di prigionia racconta la sua storia dopo l'insperata liberazione. "Ero lì perché me l’ha chiesto la Costruzioni internazionali, la società di Mondovì per la quale ho lavorato per molto tempo. Io ora sono in pensione ma il mio lavoro mi piace, mi dà ancora delle soddisfazioni e quindi quando mi chiamano dico sì" ha spiegato Calonego al Corriere della Sera, sottolineando però di essersi pentito della scelta. "Coi colleghi parlavamo delle nostre famiglie, del nostro lavoro, dell’errore fatto quando siamo partiti per la Libia, un paese che oggi sconsiglio a tutti, troppo rischioso, troppe tensioni" ha ribadito il 77enne,

"Tutto sommato ci hanno trattato bene. Ci hanno sempre dato da mangiare e non hanno usato violenze contro di noi. Ma 48 giorni sono troppi, sono interminabili. Ho avuto spesso dei momenti di sconforto nei quali mi dicevo che era giunta la fine, che mi avrebbero ammazzato. Poi facevo un pensiero felice o arrivava una parola di conforto da Bruno e tornavo a sperare" ha ricordato il tecnico facendo riferimento al suo collega Bruno Cacace. Proprio quest'ultimo ricorda invece i meccanismo di difesa creato dai prigionieri per non cedere allo sconforto: "Per non cadere nello sconforto cercavamo di scherzare il più possibile. Abbiamo anche dato dei soprannomi ai nostri carcerieri…"

"Le giornate non passavano mai, era quella la difficoltà maggiore. Non hai niente da fare. Allora parli, parli… Per fortuna non ci hanno mai divisi" ha raccontato Cacace a Repubblica, aggiungendo: "In prigionia si cerca di esorcizzare la situazione, ci si sforza di ridere e noi ridevamo del fatto che tutti i rapiti quando li liberano sono ridotti all’osso e noi invece forse siamo ingrassati". Diversa la sua scelta di andare in Libia, perché "all’inizio è un lavoro come un altro, ma quando vai là te ne innamori". Anche lui però pensa di non ritornare più "Andrò in Francia dove abitano le mie figlie, se tornerò in Libia? Loro due mi sparerebbero".

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