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Covid 19

Perché dire che il Covid diventerà un’endemia non significa che il virus sarà meno pericoloso

Con il termine endemico non si intende un’infezione meno grave ma solo che la diffusione del patogeno nella popolazione determina tassi di infezione che sono prevedibili.
A cura di Valeria Aiello
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Particelle di Sars-Cov-2 / NIAID
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Ci sono aspetti dell’epidemiologia che in certi casi si evita di sottolineare, probabilmente per non generare allarmismi o spegnere la speranza di un prossimo ritorno alla normalità. Capita però che, davanti ad affermazioni senza alcun fondamento scientifico, specialmente quando queste arrivano dal mondo della politica che decide quali misure adottare, qualche esperto decida di dirla tutta e metterci in guardia da strategie insensate. Del resto, in questa pandemia è già accaduto in più di un’occasione di ascoltare teorie basate su clamorosi equivoci, come ad esempio quando, nelle prime fasi dell’emergenza, qualcuno parlava di Sars-Cov-2 come di un banale coronavirus del raffreddore, ritardando le chiusure e addirittura sostenendo che le mascherine non ci avrebbero protetto. Oppure quando si iniziò a dire che facendo circolare Sars-Cov-2 si sarebbe raggiunta l’immunità di gregge, un concetto sposato in prima battuta dal premier britannico Boris Johnson che venne prima smentito dai modelli degli scienziati e poi anche dall’emergere della variante inglese che sorprese la popolazione.

La fase endemica del Covid

L’ultima questione che con l’ondata di Omicron è diventata tra i più chiacchierate è quella relativa al passaggio da fase pandemica a una fase endemica di Covid-19, una faccenda attorno cui ruotano una serie di ipotesi, molte delle quali formalmente sbagliate e che incoraggiano a un compiacimento fuori luogo. “Endemico non significa che il Covid giungerà a una fine naturale” spiega il professor Aris Katzourakis, virologo evoluzionista dell’Università di Oxford che in un articolo pubblicato su Nature si dice “frustato” nel sentire i politici che invocano la parola endemico come scusa per fare poco o niente. “Un’infezione endemica – sottolinea Katzourakis – è quella in cui i tassi complessivi sono statici, non in aumento e non in calo. Più precisamente, significa che la percentuale di persone che possono ammalarsi bilancia il ‘numero di riproduzione di base’ del virus, ovvero il numero di individui che un soggetto infetto contagerebbe, ipotizzando una popolazione in cui tutti possono ammalarsi. I comuni raffreddori sono endemici, così come lo è la febbre di Lassa, la malaria e la poliomielite. Così è stato per il vaiolo, fino a quando i vaccini non l’hanno eradicato”.

In altre parole, evidenzia l’esperto, una malattia può essere contemporaneamente sia endemica, sia diffusa e mortale. La malaria ha ucciso più di 600mila persone nel 2020. In questo stesso anno, si sono ammalate dieci milioni di persone e 1,5 milioni sono morte”. Pertanto, endemico non significa che l’evoluzione abbia in qualche modo resto l’agente patogeno innocuo o che la vita torni semplicemente alla “normalità”.

Endemico non significa meno pericoloso

Di questa deriva nell’interpretazione del termine endemico parlavamo anche qui, dando voce ad quella parte della comunità scientifica che ha spiegato perché l’arrivo di nuove varianti virali non è necessariamente una strada a senso unico verso una progressiva riduzione della pericolosità. “Affermare che un’infezione diventerà endemica non dice nulla su quanto tempo potrebbe essere necessario per raggiungere una stasi, quali saranno i tassi di contagio, i livelli di morbilità e i tassi di mortalità o, soprattutto, quanto una popolazione sarà suscettibile. Né suggerisce stabilità garantita: ci possono essere ondate dirompenti da infezioni endemiche, come si è visto con l’epidemia di morbillo negli Stati Uniti nel 2019 – ha aggiunto Katzourakis – . Saranno le politiche sanitarie e il comportamento individuale a determinare quale forma, tra le molte possibilità, assumerà il Covid endemico”.

Con queste premesse, l’esperto precisa come uno stesso virus possa causare infezioni endemiche, epidemiche o pandemiche. “Dipende dall’interazione tra comportamento, struttura demografica, suscettibilità e immunità di una popolazione oltre all’eventuale comparsa di varianti virali. Condizioni diverse in tutto il mondo possono consentire l’evoluzione di varianti di maggior successo che possono seminare nuove ondate. Queste sono legate alle decisioni politiche di una regione e alla capacità di rispondere alle infezioni. Anche se un’area raggiuge un equilibrio – sia quello di malattia e morte alta o bassa – , lo stesso può essere alterato dall’arrivo di una nuova variante con nuove caratteristiche”.

Quella scatenata dal coronavirus Sars-Cov-2 non è la prima pandemia al mondo. “Ma c’è un malinteso diffuso secondo cui i virus si evolvano nel tempo per diventare più benigni. Non è così: non esiste un esito evolutivo predestinato affinché un virus diventi più benigno, in particolare per quelli, come SARS-CoV-2, per i quali la maggior parte della trasmissione avviene prima che lo stesso causi una malattia grave”.

Il rischio di una diffusione incontrollata

Del resto, una conferma diretta del fatto che i virus non abbiano un’evoluzione che tenda necessariamente a una minore gravità dell’infezione è già arrivata con l’emergere di varianti come Alfa e Delta che “sono più virulente del ceppo trovato per la prima volta a Wuhan, in Cina – ricorda Katzourakis – . Anche la seconda ondata della pandemia di influenza Spagnola del 1918 fu molto più letale della prima”.

In conclusione, pensare che il passaggio a uno stato di endemicità sia qualcosa di lieve o inevitabile “è più che sbagliato, è pericoloso” perché “predispone l’umanità a molti altri anni di malattia, comprese ondate imprevedibili” che potrebbero derivare da future nuove varianti più pericolose o più trasmissibili. “Per evitare che queste emergano, il modo migliore è fermare la diffusione virale illimitata, e ciò richiede molti interventi integrati di salute pubblica, inclusa, in modo cruciale, l’equità del vaccino. Più un virus si replica, maggiore è la possibilità che emergano varianti problematiche, molto probabilmente nelle aree dove la diffusione virale è maggiore”.

È andata così per Alfa, identificata per la prima volta nel Regno Unito, e per Delta, emersa in India, e per Omicron, individuata in Sudafrica: “Tutti luoghi dove la trasmissione virale era dilagante”. Di conseguenza sarebbe più produttivo considerare “quanto potrebbero peggiorare le cose se continueremo a dare al virus l’opportunità di superarci in astuzia. Potremmo quindi fare di più per garantire che ciò non accada”.

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