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La storia dell’HIV in Africa mostra come anche le pandemie più violente possono essere combattute

L’arrivo di terapie antiretrovirali, impensabile fino a qualche decennio fa, sta mostrando che è possibile uscire anche da drammi come l’AIDS.
A cura di Valeria Aiello
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I passi in avanti fatti dalla scienza nella lotta all’HIV stanno dimostrando come una delle infezioni più pericolose e difficili da controllare ormai sia diventata una condizione che può essere efficacemente trattata anche dove fino a qualche decennio fa era impensabile mettere fine al dramma dell’AIDS. Come in Africa, continente in cui all’inizio degli Anni 2000 c’erano circa 28 milioni di positivi nelle regioni subsahariane e quasi un terzo degli adulti in Zambia era stato contagiato. All’epoca, oltre due milioni di persone morivano di AIDS ogni anno ed accedere a terapie antiretrovirali era del tutto impossibile perché il prezzo di questi farmaci, che si aggirava intorno ai 10.000 dollari l’anno, era praticamente inaccessibile per la quasi totalità della popolazione.

A distanza di più di vent’anni, chi ha toccato con mano la situazione, sa che niente è più come allora. “L’ultima volta che avevo visitato un ospedale dello Zambia, quasi 15 anni fa, i pazienti giacevano in due o tre su un letto, con la testa sui piedi dell’altro. E altri ancora erano sul pavimento” racconta Stephanie Nolen, ex corrispondente del New York Times in Africa che, tornata a fare visita a un ospedale pubblico di una comunità agricola alla fine dello scorso novembre, ha visto “qualcosa che mi ha sbalordito”. Disperazione e sofferenza non aleggiavano più nell’aria. “I reparti tacevano, e non solo perché è da poco finita un’ondata di Covid”.

Letti e corridoi degli ospedali erano vuoti, e “c’era solo il rimbombare della mia voce sui muri mentre chiedevo a Morton Zuze, il dottore che mi stava accompagnando in giro, dove fossero tutti. Quando gli ho detto che ero passata di qui l’ultima volta a metà degli anni 2000, sapeva costa stavo chiedendo. ‘Beh’, ha detto alla spicciola, ‘ci sono 200.000 mila persone in questo distretto e 20.000 sono in terapia antiretrovirale’. Si tratta di una cifra incredibile: 20.000 persone in trattamento antiretrovirale per l’HIV”.

L’unico segno di HIV in Zambia “sono stati i cartelloni pubblicitari patinati, sparsi per la capitale, Lusaka, che mostravano persone eleganti e sorridenti, con lo slogan ‘Sto mettendo fine all’AIDS con…’ e qualche strategia utile: come test regolari o cure o uso farmaci per prevenire l’infezione”.

Quando era inviata in Africa, con sede a Johannesburg al culmine dell’epidemia di HIV nel continente, Nolen ha riportato della situazione dei villaggi dell'Eswatini, allora noto come Swaziland, dove non incontrava più di una manciata di persone della sua età. C’erano solo bambini e anziani. “Ho scritto da Johannesburg del giorno in cui Nelson Mandela ha infranto un potente tabù e detto ai sudafricani che suo figlio era morto di AIDS – ricorda la giornalista – . Ho raccontato la storia di una nonna di nome Regine Mamba in Zambia che allevava 12 nipoti orfani. E ho intervistato attivisti coraggiosi e spesso disperatamente malati, come Zackie Achmat, co-fondatore della campagna di azione per il trattamento del Sud Africa, che stavano combattendo con la propria vita per ottenere l’accesso alle cure”.

“Quasi due decenni dopo, i frutti di ciò per cui hanno combattuto erano chiaramente visibili nonché un promemoria – utile in questo momento poiché un’altra ondata di Covid fa sembrare senza fine questa pandemia – di quanto è possibile. La scienza, sotto forma di farmaci che hanno sedato, se non vinto, un virus mortale; una rete di attivisti feroci e coraggiosi; gli sforzi internazionali coordinati, compreso un massiccio investimento da parte del governo degli Stati Uniti, si sono tutti uniti per realizzare il miracolo di quel reparto ospedaliero dello Zambia vuoto ed echeggiante”.

“In una clinica fuori da Città del Capo, Linda-Gail Bekker, una rinomata ricercatrice sull’HIV, mi ha detto quasi di sfuggita che ‘la nostra longevità è tornata’. Quando le ho chiesto cosa intendesse, mi ha mostrato i dati: l’aspettativa di vita dei sudafricani, che l’HIV aveva portato da 63 anni nel 1990 a un minimo di 53 nel 2004, è aumentata costantemente da quando le cure hanno iniziato a essere fornite dai sistemi di sanità pubblica e supererà i 66 quest’anno”.

“Questa era solo una delle dozzine di interazioni che non avrei potuto immaginare 25 anni fa, quando ho iniziato a occuparmi dell’HIV in Africa – continua Nolen – . In una clinica pubblica a Soweto durante il mio recente viaggio, ho trascorso del tempo con un’operatrice sanitaria di nome Nelly Zulu, che mi ha detto che quando le persone risultano positive all’HIV nella clinica in cui lavora, ricevono le prime pillole per sopprimere il virus quel giorno stesso: non c’è più la triste attesa che vedevo, mentre le persone seguivano il declino del loro sistema immunitario fino a quando non arrivavano ad avere quei pochi farmaci a disposizione”.

“Nelly mi ha anche detto che il numero di casi positivi sta diminuendo. Lei e i suoi colleghi hanno affermato di aver attribuito parte di questo declino alla profilassi pre-esposizione, meglio nota come PrEP. È un antiretrovirale preso ogni giorno che aiuta ad evitare che le persone vengano infettate se sono esposte all’HIV. Negli Stati Uniti i gay lo usano da anni, ma è arrivato solo di recente in Africa. Nelly e i suoi colleghi hanno detto che le giovani donne vengono nella sua clinica a chiederlo: ‘Quelle che hanno fidanzati più grandi di cui non possono fidarsi’”.

I dati mostrano che in Africa l’uso della PrEP non è ancora ampiamente diffuso ma “è stato affascinante per me sentire Nelly parlarne casualmente. Per così tanti anni, l'unica cosa che i consulenti come lei avevano avuto nel loro arsenale di prevenzione dell’AIDS erano stati i preservativi, o cercare di convincere le persone a non fare sesso”.

Quanto visto da Nolen in questo suo ultimo viaggio era inimmaginaginabile nei suoi anni da inviata “Le soluzioni sono arrivate decenni dopo rispetto a quando avrebbero dovuto” sottolinea Nolen, anche se il problema l’AIDS in Africa è tutt’altro che risolto. “Il Covid ha causato un’interruzione critica nelle diagnosi, interrotto la somministrazione di farmaci e minato i mezzi di sussistenza tanto da rendere le persone più vulnerabili anche a quell’altro virus. Si stima che circa 700.000 africani siano stati recentemente infettati quest’anno.

“Ma la prova di resilienza e ingegno umano è un promemoria della linea temporale di una battaglia contro un virus che non è breve, o non così breve come vorremmo che fosse. Ma è possibile uscirne, in un futuro che possiamo a mala pena immaginare in questo momento”.

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