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In Italia il 31,8% dei giovani non lavora, il doppio della media Ue

Secondo l’Istat, l’andamento positivo dell’occupazione si distribuisce fra i lavoratori che hanno più di 25 anni, ancor di più per la fascia attinente gli over 35. Le nuove generazioni, però, continuano a rimanere al palo e il tasso di disoccupazione nella fascia 15-24 anni si attesta al 31,8%, il doppio della media europea.
A cura di Charlotte Matteini
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La disoccupazione cala e l'occupazione dà segni di ripresa, ma nonostante i leggeri cambiamenti in positivo la situazione dei giovani italiani rimane drammatica. Secondo l'Istat, infatti, l'andamento positivo dell'occupazione si distribuisce fra i lavoratori che hanno più di 25 anni, ancor di più per la fascia attinente gli over 35. Le nuove generazioni, però, continuano a rimanere al palo e il tasso di disoccupazione nella fascia 15-24 anni si attesta al 31,8%, il doppio della media europea. Nella fascia dei 25-34 anni il tasso di inattività è salito dell’1,3% su base annuale e oggi si attesta al 27%. La quota di 25-29enni che non studiano e non lavorano, i cosiddetti "neet", è salita dal 23,8% del 2007 al 31,5% nel 2017. Come anticipato, in Europa la situazione è esattamente opposta e il tasso di disoccupazione giovanile nella zona Ue si attesta al di sotto del 15%, per la precisione al 14,8%.

Come spiega Il Sole 24 Ore, "i disagi del lavoro giovanile non sono nati con la crisi, ma gli anni di recessione hanno ampliato sia il divario interno fra nuove e vecchie generazioni sia, e soprattutto, quello esterno sugli standard italiani ed europei. In patria si mantiene il cosiddetto «gap generazionale», la disparità fra gli stipendi percepiti fra i lavoratori giovani rispetto ai colleghi senior. Negli anni della crisi i dipendenti under 35 hanno guadagnato in media 4mila euro in meno l’anno rispetto al salario generale, mentre la media retributiva si attesta al -21% rispetto agli standard dei colleghi di altre fasce anagrafiche. Perché tanto ritardo? Il primo problema è di natura macroeconomica. In un paese che cresce a rilento, con una produttività ferma al palo da anni, l’occupazione non può che risentirne: banalmente, meno crescita significa meno posti di lavoro o comunque un tessuto economico atrofizzato rispetto alla media Ue. Il Pil dell’Eurozona è cresciuto del 2,33% nel 2017, mentre l’Italia ha dovuto “festeggiare” per il +1,4% messo a segno nel 2017. Secondo una ricostruzione della Cgia di Mestre, un istituto di ricerca, in Italia il Pil è aumentato in valori reali di appena il 2,6% tra 2000 e 2017, contro il 25,9% della media europea, dal +23,7% della Germania a picchi record come il 113,2% dell’Irlanda.Il calo della produzione industriale (-19,1% nel 2000 e 2017), abbinata alle dimensioni modeste di investimenti pubblici, si è ripercosso sull’occupazione, colpendo soprattutto le fasce di nuovi lavoratori o aspiranti tali. È abbastanza indicativo il fatto che il tasso di occupazione nella fascia 25-34 anni sia calato dal 70,1% del 2007 al 61,3% del 2017, bruciando oltre 1,5 milioni di posti di lavoro nell’arco di un decennio".

Non è solo la stagnazione economica a rubare posti di lavoro nel mercato italiano, il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è molto più alto della media Ue anche a causa di un oggettivo sbarramento che gli under 25 si trovano di fronte al momento del diploma o della laurea: "l’Italia, infatti, è tra i pochi paesi Ue dove a un laureato occorre più di un anno per farsi assumere, ma i tempi restano estesi anche per chi esce da corsi – in teoria – formativi come gli istituti tecnici e professionali. Le imprese lamentano a cadenza periodica il «mismatch», ovvero la difficoltà di trovare profili adatti. Ma spesso il problema andrebbe rovesciato: le 0fferte delle imprese cadono a vuoto perché studenti e neolavoratori non possono essere in possesso di tutte le qualifiche richieste dalle aziende in un certo ciclo produttivo, ma devono essere formati in corso d’opera. Peccato che ad oggi, secondo dati Istat, solo il 60% delle imprese abbia erogato corsi di formazione interni. La propensione al training aumenta nelle imprese di grande dimensione: un segnale spiacevole, per un paese dove oltre il 99% delle aziende è di taglia media, piccola o micro".

Infine, l'Italia manca anche di un adeguato sistema di politiche attive, ovvero di tutte quelle misure che incentivano la ricerca di occupazione e l'incontro tra domanda e offerta di lavoro: "Il nostro paese spende meno di 200 milioni di euro in «supporto all’impiego», contro i 5 miliardi abbondanti investiti dalla Germania nel solo training e oltre 11 miliardi indirizzati ai servizi per l’impiego. Numeri che permettono a Berlino di tenere in piedi uno delle sue infrastrutture tradizionali, il cosiddetto sistema duale: un modello di alternanza scuola-lavoro, avviato nel 1969, che permette ai giovani di intraprendere dai 16 anni in poi un percorso professionalizzante di formazione sia teorica che pratica, con una divisone equa fra ore sui banchi e tirocini in azienda. In Italia si contano un totale di poco più di 550 centri per l’impiego, responsabili del ricollocamento di meno del 3% di chi cercava lavoro. In Germania i Bundesagentur für Arbeit, uffici dedicati ai soli disoccupati, sono quasi 100mila".

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