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Gli effetti del razzismo sui bambini: Fanpage.it rilancia il Doll Test in Italia

Il “Doll test” è un esperimento psicologico ideato negli Stati Uniti negli anni Quaranta per testare il grado di emarginazione percepito dai bambini afroamericani nelle scuole pubbliche. In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale Fanpage.it ha ripetuto l’esperimento con i bambini italiani.
A cura di Federica D'Alfonso
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Il "Doll test" è un esperimento psicologico ideato negli Stati Uniti per testare il grado di emarginazione percepito dai bambini afroamericani causato da pregiudizio, discriminazione e segregazione razziale. Fanpage.it lo ha rifatto oggi con bambini italiani, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della discriminazione razziale, e in considerazione dell’aumento esponenziale, negli ultimi anni, del fenomeno migratorio in Europa. Il video stato è ideato e diretto da Luca Iavarone e Raffaello Durso; operatore: Giuliano Caprara; musica: Lorenzo Campese; fonico: Peppe Pace; segretaria di produzione: Nelly Tarasco; elettricista: Francesco Buonocuore; grafiche: Andrea De Luca.

L'esperimento di Henneth e Mamie Clark

Nel 1940, in un'America in lotta per i diritti civili, gli psicologi Kenneth Bancroft Clark e Mamie Phipps Clark portano avanti una serie di esperimenti con i bambini per testare la percezione di sé legata alla razza: i risultati evidenziarono significative differenze tra i bambini afroamericani che frequentavano le scuole separate (le cosiddette "scuole ghetto") rispetto a quelli delle scuole integrate.

L'esperimento mette di fronte al bambino due bambole: completamente identiche, tranne che per il colore della pelle e dei capelli. Al bambino viene domandato con quale bambola preferirebbe giocare, quale bambola è bella e quale è brutta, e infine, quale gli somiglia di più. In seguito agli studi dei Clark la Corte Suprema dichiarò incostituzionale il principio "separati ma uguali" suggerito dalla legge Jim Crow sulla segregazione nel settore dell'istruzione, dimostrando come i bambini afroamericani percepissero "un perenne stato di inferiorità rispetto al resto della comunità".

"Dimmi, papà, cos'è il razzismo?"

Inizia così il celebre libro di Tahar Ben Jelloun "Il razzismo spiegato a mia figlia": lo scrittore franco-marocchino riporta le domande di una bambina di dieci anni, sua figlia Merièm, dopo che questa ha assistito ad una manifestazione "contro il razzismo". Di fronte a questa parola sconosciuta, la bimba diviene curiosa, e suo padre, con incredibile semplicità, cerca di spiegarle un fenomeno così complesso e variegato.

"Il razzista è colui che pensa che tutto ciò che è troppo differente da lui lo minacci nella sua tranquillità", dice Jelloun. Ma il razzista è anche una persona che non sa, che non conosce chi gli sta di fronte: è l'ignoranza e l'ostinazione a non voler vedere al di là delle differenze a creare i fantasmi del razzismo. Il razzismo non è un elemento naturale insito dell'uomo, non sta nel DNA: tuttavia la psicologia lo definisce come un atteggiamento istintivo, di paura e autodifesa verso l'estraneo. Una paura che, lo spiega sempre Jelloun, è irrazionale, immotivata ma fortemente accresciuta qualora non intervengano gli strumenti più importanti: l'istruzione e la cultura.

"La percezione conta: noi viviamo di pre-giudizi e pre-concetti, nel senso letterale di significati dati a monte, che servono a semplificarci la vita", spiega Stefano Allievi, sociologo del Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata dell’Università di Padova. Le "semplificazioni" servono a categorizzare un mondo fin troppo vasto, disomogeneo: attraverso categorie e concetti l'uomo attiva quel meccanismo complesso che tutti noi chiamiamo "conoscenza". "Il problema sorge quando questa percezione traduce la diversità in specificità di tipo caratteriale o morale, in inferiorità o superiorità".

Il razzista, oggi

In ogni paese europeo vivono ad oggi moltissimi migranti di seconda, terza e quarta generazione, che sono a tutti gli effetti cittadini di queste nazioni, come questi bambini italiani. Eppure, per molti, essi rimangono ‘diversi’, ‘stranieri’: una definizione pericolosa e che, negli ultimi tempi, rischia di essere illegittimamente accostata anche al fenomeno terrorista. Senza un serio cambiamento di prospettiva, sia politico che sociale, rischiamo, così, di distorcere pericolosamente la percezione che abbiamo dell’altro, e che l’altro ha di sé. E di rendere vivo più che mai, inconsapevolmente e soprattutto fra i bambini, il fantasma del razzismo.

Parlare di razzismo oggi, vuol dire inevitabilmente parlare di un fenomeno complesso che da alcuni anni ci tocca direttamente: quello dell'immigrazione. Sulle coste del Mediterraneo, infatti, sbarcano ogni anno migliaia di migranti in cerca di un futuro diverso: alcuni per migliorare le proprie condizioni economiche, altri sono rifugiati politici, in fuga da zone di guerra, discriminazioni e, talvolta, persecuzioni etniche, religiose o politiche. Il 2015 è stato vissuto in Europa come l’anno dell’ ‘invasione’ che minaccia di spazzare via equilibri sociali, economici e culturali. La sempre più stretta sorveglianza dei confini e delle frontiere può determinare, però, anche un rischio, quello di annientare definitivamente qualsiasi possibilità di dialogo o di integrazione.

Un fenomeno, quello migratorio, che ci ha trovati, come chiarisce il sociologo Zygmunt Bauman, notevolmente impreparati: "Fin dall'inizio della modernità fuggiaschi dalla brutalità delle guerre e dei dispotismi, dalla vita senza speranza, hanno bussato alle nostre porte. Per la gente da qua della porta, queste persone sono sempre state ‘estranei', ‘altri'". E di queste persone noi abbiamo paura. Per quale motivo?

Perché sembrano spaventosamente imprevedibili nei loro comportamenti, a differenza delle persone con cui abbiamo a che fare nella nostra quotidianità e da cui sappiamo cosa aspettarci. Gli stranieri potrebbero distruggere le cose che ci piacciono e mettere a repentaglio i nostri modi di vita. Degli stranieri sappiamo troppo poco per essere in grado di leggere i loro modi di comportarsi, di indovinare quali sono le loro intenzioni e cosa faranno domani. La nostra ignoranza su che cosa fare in una situazione che non controlliamo è il maggior motivo della nostra paura.

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