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Genitori non cedete al terrore: fate partire i vostri figli per l’estero

«Se non parti ora, vincono loro. Abbiamo paura ma è giusto che tu vada». Così dissero i miei genitori dopo l’attentato di Londra. Io avevo 15 anni sarei partita una settimana dopo per l’Inghilterra. Dieci anni dopo penso che quella sia stata la scelta giusta.
A cura di Chiara Arcone
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«Chiara dobbiamo dirti una cosa. C'è stato un attentato alla metropolitana di Londra».
Era il 7 luglio 2005 e cinquantadue pendolari persero la vita in quattro attentati suicidi che colpirono tre diverse stazioni della metropolitana e un autobus a Londra.

I miei genitori erano terrorizzati, come non li avevo mai visti perché io sarei dovuta partire una settimana dopo per l'Inghilterra, proprio per Londra. Era il mio primo viaggio da sola, a quindici anni, all'estero. In aereo.
Presero una decisione non scontata e non banale: lasciarmi partire.
Mio padre e mia sorella mi confessarono, tornata a casa due settimane dopo, che mia madre non spegneva mai la tv e il canale era sempre lo stesso: Sky Tg24.

Nascosero il terrore e mi fecero salire su un aereo, una settimana dopo un attentato fatto nello stesso posto nel quale ero diretta.
Penso che quello sia stato uno degli insegnamenti più importanti che loro mi abbiano dato. Ci pensavo oggi, dopo gli attentati a Bruxelles, al fatto che ho venticinque anni, appartengo ad una delle generazioni più europee per certi punti di vista e da quando ho iniziato a viaggiare ho conosciuto parallelamente i voli low cost e il terrorismo, la veloce prenotazione da casa per un volo e i controlli a tappeto al gate con le scarpe tolte, le bottigline da svuotare, le bustine al posto delle scarpe, il silenzio dopo il controllo nella sala dell'aeroporto.

Ho pianto la prima volta che sono entrata nella metro a Londra. Tra i ricordi di quella vacanza studio in un college inglese ci sono: la paura della metro e la strada bloccata dai cordoni gialli con scritto “do not cross” e io, al secondo piano dell'autobus inglese con perfetti abiti da turista e studentessa europea, osservavo e aspettavo che sbloccassero la strada.
La sera, in televisione riguardammo quelle scena, capimmo che era successo qualcosa di strano. E noi eravamo in mezzo.

La mia generazione è vissuta con il mito delle frontiere aperte, del passaporto che non serve, della dogana vista solo nei film e dell'Europa da scoprire.
Mi ritrovo, dopo dieci anni dall'attentato alla vigilia del mio primo viaggio, con un'Europa che non accoglie, che alza muri di filo spinato e in cui i luoghi di passaggio sono il crocevia per una guerra che sembra troppo lontana ma che si rivela con un unico fuso orario in cui non esistono frontiere e civili da difendere. Ma siamo tutti in prima linea.
A quindici anni si è incoscienti. Salii su quell'aereo, dopo controlli di ogni tipo, con l'adrenalina del primo volo e nulla più.
Dopo dieci anni, ogni volta che ad un attentato segue la reazione «dobbiamo chiudere le frontiere», penso alla frase detta dai miei genitori e che non dimenticherò mai. «Se non parti ora, vincono loro. Abbiamo paura ma è giusto che tu vada».
Forse non c'entra. O forse si.

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