211 CONDIVISIONI
video suggerito
video suggerito

Palestina: la storia di Naser e dei suoi bimbi invisibili, tra bulldozer israeliani e filo spinato

Incontro in Cisgiordania, alle porte di Nablus. In una zona palestinese a totale controllo israeliano sorge il New Askar Camp: meno di un chilometro quadrato per 7.000 rifugiati. Persone invisibili, private della loro libertà e dignità, che sognano una convivenza pacifica, malgrado i silenzi dell’Onu….
A cura di Redazione
211 CONDIVISIONI
Immagine

Solo pochi pellegrini arrivano a Nablus. Si fermano al pozzo della samaritana e non guardano mai oltre. Di là ci sono solo terreni aridi, filo spinato e gli avanzi di un’umanità che nessuno vuole vedere. Per alcuni sono terroristi e, a pensarci bene, è il modo migliore per non curarsene. La strada si restringe, lo scenario cambia.

«Benvenuti a New Askar Camp – dice Naser – terra di rifugiati e disperazione».

Il caldo si fa sentire. Le case sono malconce, si vedono poche botteghe e un furgone carico di frutta che scompare per le viuzze. In Area C si vive sotto il completo controllo israeliano: amministrativo e militare. In sintesi, possono entrare e fare quel che gli pare.

La Palestina è divisa in tre zone. Quelle a totale controllo palestinese (Zona A). Quelle con esercito israeliano e amministrazione palestinese (Zona B). E quelle a totale controllo israeliano, come questa. La strada là in fondo è il confine: se uno di qui la attraversa, potrebbero anche sparargli. L’orizzonte, in questo spicchio alle porte di Nablus, è lontano poche centinaia di metri. Il campo, spiega mentre camminiamo tra i vicoli, fu istituito nel 1964, a seguito del grave sovraffollamento di Askar, più vicino alla città. Tuttavia, non è ufficialmente riconosciuto come un campo, quindi non ci sono strutture dell’Agenzia Onu per i Rifugiati.

Questa è la storia di Naser, cinquant’anni pesanti da portare e masticare come sacchi di sabbia. Ha il volto segnato e i denti scheggiati. Sul biglietto da visita c’è scritto “guida turistica”, ma forse il lavoro più bello lo fa nella sua Odeh Association, insegnando ai bambini il valore non svendibile della dignità. Come chiunque qui dentro, Naser è un rifugiato. Lo si diventa per nascita, ormai, dato che la deportazione iniziò nel 1948. «La domanda più difficile della mia vita – dice – me la fece un giorno un bambino nel campo: perché siamo rifugiati a casa nostra? Perché si muore ogni giorno? Perché non possiamo imparare a nuotare nel nostro mare?».

A New Askar ci sono 7.000 abitanti in meno di un chilometro quadrato, ma il campo fu creato prevedendone 1.500. Eppure, rivendica, nessuno va mai a letto senza cibo o dormirà per strada, anche se significa stringersi in case sempre più strette che semmai crescono in altezza. Si aiutano a vicenda. La disoccupazione è al 70 per cento. La droga circola. Per questo tanti scelgono di partire per l’Europa, anche come clandestini. Anche Naser è partito. Ha preso un aereo dalla Giordania, perché in Israele gli è vietato entrare, e ha portato sua figlia Alia in giro per le capitali europee. Avrebbe potuto scegliere la clandestinità, ma ha scelto di tornare. «Arafat era la nostra speranza – dice e si commuove – c’è una sua foto su ogni vetrina. Dicono che fosse un terrorista, ma è stato l’unico a sedersi al tavolo della pace con Rabin e Clinton. Chiedetevi perché li abbiano ammazzati entrambi. Scappare non serve. Noi ora possiamo solo aprire le menti dei nostri figli, spiegargli la vera storia che è stata loro negata per così tanto tempo. La nostra associazione ha 45 volontari e studenti universitari di molte discipline. Inoltre abbiamo un gruppo di volontari stranieri. Il sogno di ogni palestinese è vivere in pace, sicurezza e libertà. Questa terra è di tutti noi. Dobbiamo condividerla e abbiamo il diritto di viverci, compresi gli ebrei».

Naser e sua figlia Alia a Parigi
Naser e sua figlia Alia a Parigi

Pace, libertà, democrazia, coesistenza di tutti nella terra della pace. La Terra Santa. L’associazione è stata fondata di recente, ma sin dal 1966 c'era chi lavorava con bambini, donne e disabili. L’inglese fluisce a strappi, ma lui abbassa lo sguardo e ammette di averlo imparato in carcere. «Non c'è occupatore al mondo – spiega – che non cerchi di stroncare la rivoluzione e le contestazioni, per questo sono stato imprigionato. E’ stato il risultato della mia resistenza all'occupazione approvata dall'Onu e dalla legge internazionale. Ho passato quattro anni in cella e nonostante quello che si può pensare, è stata una grande esperienza. Ho incontrato persone di ogni tipo, che mi hanno insegnato tanto. Da lì per me è iniziata una nuova vita».

E’ originario di Jaffa, ma non ci ha mai vissuto, eppure è fiducioso che un giorno tornerà. Non può neanche andarci lavorare, perché avrebbe bisogno di un permesso, che sin dall'occupazione viene rifiutato per motivi di sicurezza. «La mia famiglia lasciò la città nel 1948 dopo la guerra civile – spiega – vent’anni prima che io nascessi, per scampare ai massacri delle bande dei Sionisti contro gli abitanti palestinesi. Quello più infame forse fu quello di nel villaggio di Deir Yassin, in cui i terroristi uccisero più di 200 contadini palestinesi. Giovani e vecchi, donne e bambini».

Così, mentre Israele cresceva, i palestinesi se ne andarono e conobbero la Nakba, l’esodo. Fu allora che l’Onu creò l'Agenzia Internazionale dei Rifugiati per assisterli in ogni campo, soprattutto fornendo alloggi in attesa di garantire loro il diritto di tornare. I primi campi furono creati nel 1948 per sistemare tutti i rifugiati in Palestina, Giordania, Libano e Siria. La famiglia di Naser inizialmente visse in aree differenti, infine arrivò al New Askar Camp. «I terreni dei campi – dice – sono stati presi in affitto dall'Onu per 99 anni. Per questo la domanda di tutti i rifugiati è che cosa ci succederà dopo questo periodo? Cosa farà l'Onu? Cosa sarà dei nostri ragazzi? Ne conosco tanti che sono partiti in cerca di una nuova vita e un futuro migliore. Un lavoro, una moglie, il passaporto europeo, stabilità materiale e politica, stabilità psicologica, libertà e dignità. Si aspettano una vita senza barriere e muri, cercando al contempo le risorse economiche per sostenere le loro famiglie. Mia figlia ha 15 anni e fa progetti di felicità, amore e pace e sogna di visitare almeno una volta Gerusalemme. Per noi non è una città come le altre. E' il cuore, il sogno, la speranza, la capitale eterna e la culla delle religioni. L'ultima volta che ci sono stato fu 25 anni fa e a partire da allora ci è vietato entrare a causa di un ordine dell'Esercito israeliano».

Immagine

La città vecchia e le sue mura distano solo 120 chilometri, ma di mezzo ci sono reticolati e un muro alto sette metri. Impossibile immaginare una vita così. Di colpo la fuga dei cervelli dall’Italia diventa l’emblema della nostra libertà. Provate invece ad immaginare che cosa significhi nascere in un posto da cui è impossibile scappare. Quale sarà il futuro di questi bambini, che si ritraggono se cerchi di fotografarli, ma si avvicinano se capiscono di poterne avere una stampata? «Non siamo terroristi – dice Naser – cerchiamo la pace per tutti e non sogniamo guerre e omicidi. Ci impegniamo con ogni mezzo e ogni mezzo approvato dall'Onu e dalle leggi internazionali, per ottenere diritti e libertà. La radice della violenza? Sta nell'occupazione e nel fallimento della costituzione di uno Stato palestinese indipendente. La nostra gente vuole la fine dell'occupazione e la nascita di uno Stato sulla base dei confini del 1967, con Gerusalemme come capitale e il diritto per i rifugiati di fare ritorno. Le azioni quotidiane di occupazione contro la nostra gente, gli arresti, le uccisioni, la demolizione delle case e la confisca delle terre ci danno il diritto di combattere per la libertà e l'indipendenza. Dove libertà è avere ciò che il diritto internazionale ci riconosce, in modo che possiamo vivere in pace e con gli stessi diritti di tutti i popoli».

Continua a parlare delle Nazioni Unite, avendo individuato nel loro stallo il varco attraverso cui sistematicamente s’è infilato Israele per le sue occupazioni. L’Onu, quindi, non gli ingombranti vicini di casa che, forti degli appoggi internazionali, vanno dritti per la loro strada senza guardare oltre questi reticolati. Il mondo qua fuori non sa neanche che esistono, figuriamoci se qualcuno avrà mai voglia di preoccuparsi del loro futuro. «Per questo, amici miei – dice con commozione – quello che vi chiedo è di tornare a casa e raccontare ciò che avete visto. Non vi chiedo di prendere una posizione. Ma parlare di noi è la sola cosa che conta perché mia figlia possa diventare donna nella sua casa, nuotando nel suo mare e crescendo qui i suoi figli. La cosa peggiore per noi è la sensazione di non esistere».

Enzo Vicennati

211 CONDIVISIONI
autopromo immagine
Più che un giornale
Il media che racconta il tempo in cui viviamo con occhi moderni
api url views