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Opinioni

Abbiamo lasciato sole le donne afghane contro i Talebani, e ora pagano il prezzo più alto

Nonostante le rassicurazioni dei talebani all’Occidente, le donne continuano a pagare il prezzo più alto per il loro ritorno al Potere.
A cura di Jennifer Guerra
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Ai nostri occhi di occidentali, le guerre non sono tutte uguali. Ce l’ha dimostrato con forza questa guerra in Ucraina. Nei primi giorni dell’invasione, c’era chi parlava della “prima guerra dal 1945”, come se tutti i conflitti avvenuti negli ultimi 77 anni non avessero lasciato alcuna traccia. Questo preconcetto è diventato ancora più evidente con il trattamento differenziato che i profughi ucraini hanno vissuto rispetto ai profughi di tutte le altre guerre, la cui credibilità viene sempre messa in discussione. Nel caso degli ucraini, nessuno dei politici che tuona contro “l’invasione” per una manciata di rifugiati provenienti dalla Libia ha battuto ciglio, ma anzi c’è stata una commovente mobilitazione generale che chiunque scappa da qualsiasi guerra meriterebbe.

L’attenzione maggiore riservata alla guerra in Ucraina si spiega senz’altro con la vicinanza geografica e culturale, ma a dispetto di un dibattito pubblico così verticalizzato non dobbiamo dimenticarci di tutti gli altri conflitti in corso. Dopo la grande attenzione dello scorso agosto, quando i militari statunitensi abbandonarono il suolo dell’Afghanistan lasciando spazio all’avanzata dei talebani, tutti sembrano essersi dimenticati di quello che è successo e sta succedendo a Kabul. Si è parlato pochissimo, ad esempio, dell’obbligo di coprire il viso in pubblico per le donne, nonostante si tratti di un gravissimo passo indietro per i diritti delle donne.

Il 7 maggio, il governo talebano ha infatti approvato un decreto che prevede punizioni per i padri o i parenti più prossimi delle donne che mostrano il viso in pubblico. La copertura ideale, ha spiegato il ministro per la Propagazione della virtù e la prevenzione del vizio Mohammad Khalid Hanafi, è il burqa blu imposto alle donne dal precedente governo talebano tra il 1996 e il 2001. A differenza del velo che la maggior parte delle donne afghane già indossa, il burqa è un indumento che copre integralmente il viso e che non lascia scoperti nemmeno gli occhi ed è diventato il simbolo della repressione operata dai talebani durante il regime.

Questa è la seconda pesante restrizione imposta dai talebani nei confronti delle donne nel giro di pochi mesi. Da marzo, infatti le bambine con più di 12 anni non possono più andare a scuola. Il 23 marzo doveva ricominciare l’anno scolastico in Afghanistan, ma le scuole femminili medie e superiori non hanno riaperto. Il ministro dell’Istruzione ha dichiarato che si tratta di una sospensione temporanea, nell’attesa che lo stesso ministero approvi un nuovo regolamento scolastico secondo le regole della sharia. Ma molti, incluso il segretario delle Nazioni Unite António Guterres, temono si tratti solo di una scusa per ostacolare l’istruzione delle donne nel Paese. Durante il precedente regime talebano l’accesso all’educazione era stato impedito alle donne, così come la possibilità di svolgere la maggior parte dei lavori.

All’indomani della presa di Kabul, il governo talebano aveva promesso che avrebbe rispettato i diritti di donne e bambine, ma come da tempo denunciano le attiviste di Rawa, l’associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, nel Paese non è in corso una catastrofe umanitaria, bensì “il completo collasso della vita umana stessa”. “Anche se questa volta i talebani stanno cercando di mostrare un lato più morbido per ottenere il sostegno del mondo e degli organismi internazionali, la loro natura reazionaria e misogina non è cambiata. Ora stanno commettendo vari crimini su larga scala”, hanno ricordato le attiviste durante una riunione in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

L’imposizione del burqa non farà altro che rafforzare la progressiva sparizione delle donne dallo spazio pubblico. Le Nazioni Unite stimano che la scomparsa dei posti di lavoro delle donne costerà a un Paese già immensamente povero circa un miliardo di dollari, equivalente al 5% del Pil nazionale. Anche se oggi è molto più difficile raccogliere i dati, prima di agosto 2021 le donne costituivano il 27% degli impiegati statali e il 40% degli insegnanti e circa 3500 piccole e medie imprese erano a conduzione femminile. La chiusura delle scuole e l’obbligo di indossare il burqa avranno un impatto devastante per le lavoratrici, comprese quelle che fanno lavori esclusivamente concessi alle donne. Come ha raccontato al Guardian una ginecologa di Herat, anche per la sua professione sono previsti il burqa e la presenza di un guardiano maschile, persino durante le operazioni chirurgiche. Diverse impiegate statali hanno riferito di continuare a ricevere la paga ma di non potersi recare sui luoghi di lavoro, a causa della presenza di uomini.

Nonostante la repressione, il popolo afghano continua a protestare contro il regime. Le donne sono scese in piazza, a volto scoperto, per protestare contro il nuovo decreto sul burqa, così come avevano fatto due mesi fa per la mancata riapertura delle scuole. Queste notizie sono passate quasi inosservate in Occidente, dove anzi i capi talebani vengono ricevuti per dialoghi diplomatici, fra le proteste degli attivisti per i diritti umani. Sono passati pochi mesi e un conflitto più vicino e polarizzante affinché le promesse a “non lasciare sole le donne afghane” venissero scordate. Una dimenticanza ancora più grave, se si considerano le colpe che l’occidente ha avuto nel precipitare della situazione.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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