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Enea, l’eroe fondatore di Roma era un “profugo”: perché per gli antichi non era un nemico?

L’Eneide di Virgilio ha raccontato le mitiche origini della civiltà romana attraverso il difficile viaggio di un uomo allontanatosi dalla sua terra natia per fuggire dalla guerra. Per gli antichi Enea è stato un eroe, non un nemico né tanto meno un pericolo: perché?
A cura di Federica D'Alfonso
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Particolare del gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini dedicato ad Enea, Anchise ed Ascanio, Galleria Borghese di Roma.
Particolare del gruppo scultoreo di Gian Lorenzo Bernini dedicato ad Enea, Anchise ed Ascanio, Galleria Borghese di Roma.

Fin dai tempi più antichi l’uomo si è affidato alla letteratura per esorcizzare le sue paure, nutrire le sue speranze e giustificare le proprie contraddizioni. Storie e personaggi che vengono letti e studiati ancora oggi per il ruolo che hanno avuto nella costruzione della nostra identità. È il caso ad esempio di Enea, capostipite della gens Iulia e glorioso fondatore della romanità e di tutto ciò che ne è seguito. Pio, devoto, coraggioso e determinato. Ma anche, e soprattutto, “straniero”: uno straniero che non è però mai stato un problema, né un pericolo. Eppure egli è diverso, è sbarcato sulle coste italiche con un vero e proprio esercito: perché allora non è un nemico?

Enea, l’eroe venuto da lontano

Ferdinand Bol, "Enea alla corte del re Latino" (1662), Rijksmuseum, Amsterdam.
Ferdinand Bol, "Enea alla corte del re Latino" (1662), Rijksmuseum, Amsterdam.

Il personaggio di Enea nasce con Esiodo: nella Teogonia il poeta racconta dell’incontro, architettato da Zeus per vendicarsi di Afrodite, fra la dea e il mortale Anchise. Dall’amore proibito fra l’uomo e la divinità nascerà un bambino: un essere straordinario, secondo le profezie, che regnerà sui Troiani e conquisterà la gloria eterna.

Nell’Iliade lo rincontriamo già adulto alle prese con numerose battaglie, protagonista di un duro scontro con Achille dal quale, grazie al favore degli dei, uscirà incolume. Ma sarà con l’Eneide che il valoroso guerriero troverà la sua strada e compirà il suo destino di gloria: dopo il vano tentativo di difendere Troia dall’assalto dei greci Enea decide di fuggire dalla città, portando con sé il padre Anchise e il figlio Ascanio.

Virgilio ha raccontato, rielaborando un mito molto più antico, la fondazione di Roma e con essa l’origine stessa della nostra cultura: ma lo ha fatto scegliendo un eroe venuto da lontano, esule fuggito da una patria ormai distrutta dalla guerra. Per compiere il destino glorioso al quale è promesso, Enea combatte le genti italiche e sposa una donna di “sangue diverso” dal suo. Nonostante questo egli è un “hospes” e non un “hostis”.

Lo “straniero”: un concetto relativo?

La romanità ha assimilato Enea come un eroe e non come un invasore: perché? Se l’Altro, colui che viene da lontano ed è diverso da noi per ragioni culturali e non solo, è un pericolo, perché scegliere di affidare la propria identità nelle sue mani e riconoscerlo quale elemento fondante della propria “civile” identità? Forse per un semplice, ma evidentemente non scontato, dettaglio: le parole hanno il significato che noi scegliamo di dare loro.

Quando Virgilio inizia la composizione del suo grandioso poema Roma sta attraversando uno dei periodi più complessi della sua storia: la guerra civile aveva destabilizzato la Repubblica, e Augusto tentava di legittimare attraverso un ritorno all’antichità la sua discendenza adottiva dal grande Giulio Cesare. Come sempre accade, la letteratura non è solo arte, ma anche politica: l’Eneide rientra appieno in quel progetto di restaurazione dell’autorità che vedrà Ottaviano Augusto regnare come imperatore. Tutta la forza e la legittimità di tale autorità si regge su un unico elemento: la discendenza della gente Iulia da un mitico e glorioso eroe. Un eroe che a tutti gli effetti è “straniero”, ma che viene scelto quale rappresentante più degno di un passato nobile su cui poter costruire il futuro.

L’estraneità di Enea alla romanità degli antichi mores viene assimilata come legittima perché garanzia del successo di un’evoluzione che la società romana stava attuando dal suo interno. Lo straniero, in quel momento, era necessario, vitale alla sopravvivenza del potere. In seguito, quando tale potere si affermerà in tutta la sua forza, egli non servirà più e sarà qualcuno da sottomettere o da combattere. Ed è forse in questo stupefacente ribaltamento di punti di vista che è racchiusa tutta la paura che oggi abbiamo dell’Altro: perché abbiamo dimenticato di chiederci, forse, a quale scopo egli ci viene presentato come “un pericolo”.

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