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Il caso banca popolare di Bari

La Popolare di Bari non è un’eccezione: siamo noi che facciamo finta di non vedere

A ogni crisi, bancari e giornalisti si affrettano a dire che il sistema è sano e che ogni crisi è un’eccezione. La verità è un’altra: che gli operatori di mercato ormai non si fidano più dei bilanci delle banche. Che l’unica cosa che guardano sono i crediti in sofferenza. E che chi dovrebbe vigilare, troppo spesso, dorme.
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La vicenda della Banca Popolare di Bari è solo paradigmatica della situazione complessiva del sistema bancario. Una situazione che è anche figlia di una consolidata abitudine del giornalismo finanziario: non si parla mai davvero di banca, o meglio, si parla di banca solo per raccontarne i disastri, quelli già avvenuti.

Altrimenti meglio minimizzare.

L’arte del minimizzare è spesso l’unica arma che hanno tra le mani i perdenti. Ricorda tanto, al tifoso patologico, la strategia di comunicazione del compianto Emiliano Mondonico, allenatore del Napoli retrocesso in serie B nel 2001 dopo oltre 37 anni, che ad ogni sconfitta della squadra amava ripetere “non è questa la partita che dovevamo vincere”. Nel frattempo noi tifosi ci chiedevamo quale partita avremmo dovuto vincere visto che le perdevamo tutte.

È lo stesso atteggiamento che hanno i banchieri e le penne di sistema che difendono un mondo che presenta ormai più buchi di una fetta di formaggio svizzero.

Mi piace provocarli, ad ogni dibattito pubblico e televisivo, con l’arte diametralmente opposta e cioè con la generalizzazione. Anche perché non è molto lontana dalla realtà. Ci piace generalizzare, è rassicurante, un pretesto per risparmiarci altre fatiche per combattere il “tanto non è sempre così”. E quindi vi dico che il “falso in bilancio”, reato oggettivamente riconosciuto dal GIP del tribunale di Bari nel provvedimento cautelare che ha coinvolto i vertici della banca, non appartiene solo all’istituto pugliese ma è prassi consolidata e generalizzata (che non significa seguita da tutti) nel mondo delle banche.

Diverse banche hanno falsificato o falsificano i loro bilanci. In Banca Popolare di Bari, per essere semplici, hanno falsificato i bilanci al fine di produrre un utile maggiore e per dare più solidità ai conti preoccupanti della azienda. Come? Falsificando i dati degli avviamenti (cioè sopravvalutando il potenziale di banche decotte come Tercas e Cassa di Risparmio di Orvieto) per circa 360 milioni. E ancora: 41 milioni da pagare all’Inps non segnalati in bilancio, false imposte anticipate sulle perdite fiscali per 96 milioni nel 2015, prospetti sballati sulla solidità delle azioni.

Ma non vi scandalizzate perché questa è solo la punta dell’iceberg.
Esiste un modo più subdolo e scientifico per falsificare un bilancio di una banca. Il mercato, influenzato dagli analisti, lo sa e continua a bocciare in Borsa il sistema bancario, che ha perso il 56% negli ultimi 10 anni. Perché? Perché gli analisti sanno leggere i bilanci e si preoccupano della voce crediti in sofferenza, cioè di quei prestiti che non verranno restituiti integralmente e soprattutto saranno rimborsati in tempi lunghi. E la coppia Bce-Bankitalia non può più far finta di non vedere.

Ad esempio in Montepaschi, nel gennaio scorso, sono scattati controlli della Vigilanza di Francoforte mirati a verificare, tra l’altro, la veridicità della posta di bilancio degli accantonamenti per le perdite su sofferenze (Npl) derivanti da crediti incagliati (Utp) con anzianità superiore ai sette anni.

Domanda: perché questa preoccupazione arriva sempre tardi?  Ma soprattutto cosa hanno combinato di preciso le banche in merito alla valutazione nei loro bilanci degli Npl? Semplice, non li hanno valutati come tali.

La regolamentazione derivante dall’accordo interbancario di Basilea che fissa i requisiti patrimoniali minimi degli istituti, il cosiddetto “patrimonio di vigilanza”, per poter “fare banca” e cioè erogare credito sulla base dei risparmi depositati che vanno appunto salvaguardati, obbliga le banche alla registrazione nel proprio bilancio, per ogni credito concesso, di accantonamenti “prudenziali” per le “perdite attese”, con relativa diminuzione quindi degli utili per gli azionisti. Accantonamento che diventa nettamente superiore se quel credito concesso diventa un “credito di dubbio recupero”.

A questo punto siamo sicuri che i crediti sani (cosiddetti in bonis) siano davvero tali? Ma se invece la Bce, come pare stia facendo, le ispezioni le concentrasse sui crediti ancora in bonis o presunti tali (sui quali gli accantonamenti da fare sono nettamente inferiori a quelli previsti per i “deteriorati”)? E se si accorgesse che l’impresa beneficiaria del finanziamento avesse già manifestato evidenti segnali di crisi (ha ricevuto un pignoramento da Equitalia per mancato pagamento della Tarsu, non paga le rate di mutuo da oltre otto mesi, ha i fidi interamente utilizzati o sconfinati ed effettivamente incagliati), da controllore considererebbe quel prestito tra i “crediti in bonis” o tra i “crediti deteriorati”?

E se facendo una indagine più approfondita verificasse che quel finanziamento è ancora tra i “crediti in bonis”, come dovrebbe considerare il bilancio di quella banca?
Semplicemente falso.

Ma i difensori del sistema, anche questa volta, diranno, citando Mondonico, che “non era quella la partita da vincere”.
Al prossimo default, quindi. Con i soliti titoloni dei media minimizzatori.

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