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Ecco chi era Manlio Cancogni, storica firma del giornalismo italiano

Si è spento all’età di 99 anni lo scrittore e giornalista Manlio Cancogni. Da tempo aveva scelto di vivere nella cara Versilia dei suoi genitori, dopo una vita dedicata al giornalismo e alla letteratura. Indimenticabili restano la sua inchiesta “Capitale corrotta, nazione infetta” e le sue pagine piene di verità e ironia che hanno raccontato gran parte della cultura e della politica del Novecento.
A cura di Federica D'Alfonso
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È morto nella sua casa di Marina di Pietrasanta, in Toscana, lo scrittore e giornalista Manlio Cancogni. Nel 2016 avrebbe compiuto 100 anni, lui che guardava a questo traguardo con ironia, dicendo spesso "superati i novanta, mi piacerebbe arrivare ai cento e fare l'en plein". Nato nel 1916 a Bologna, da anni viveva in Versilia, la terra natale dei suoi genitori. Una lunga carriera nel giornalismo per alcuni dei quotidiani più noti del Paese, importantissimi premi nazionali per i suoi romanzi, ed un curriculum da docente di letteratura italiana che negli anni Sessanta lo porta ad insegnare allo Smith College di Northampton, negli Stati Uniti. Proprio in America vive una parte importante della sua vita, fra insegnamento e giornalismo, collaborando da New York con Il Giornale di Indro Montanelli: sempre però con lo sguardo rivolto alla sua Italia e alla cara Versilia.

Considerava il Vangelo un testo contraddittorio, e non aveva paura di dare "la colpa" del '68 e del terrorismo alla tv. L'amicizia con Pasolini e l'antipatia per Sciascia: le idee di Cancogni non hanno mai esitato di fronte all'opinione pubblica perbenista del paese, e il suo lavoro di giornalista è andato fino in fondo alle questioni più ambigue e oscure della politica italiana. Celebre infatti resta la memorabile inchiesta "Capitale corrotta, nazione infetta" condotta per L'Espresso, per il quale fu anche corrispondente da Parigi. Nel 1955 Manlio Cancogni già sapeva che l'Italia è un Paese corrotto, e non ha esitato a scriverlo con estrema durezza, nella sua inchiesta che coinvolse, fra gli altri, l'allora sindaco di Roma Salvatore Rebecchini negli affari non tanto puliti all'ombra del Campidoglio. "Andai due volte per un appuntamento col sindaco Rebecchini che non si fece trovare. Dissi al suo segretario che allora avrei scritto quello che si diceva in città. E lo feci".

La sua inchiesta creò scandalo, ma lui, degli scandali, non si fidava poi tanto. Ha utilizzato parole dure contro il particolare moralismo italiano: la gente si compiace e condanna gli scandali, usandoli come valvola di sfogo delle proprie personali frustrazioni. Gode a veder condannato il peccatore, ma in fondo non gliene importa tanto del peccato.

Gli uomini possiedono ad ogni latitudine lo stesso bagaglio di vizi e di virtù.

Non amava il moralismo, ma nemmeno gli scandali all'italiana, ed il suo lavoro di giornalista è sempre rimasto fedele a tale idea. Del giornalismo attuale, quello degli anni duemila, diceva di leggere di cultura, cronaca e politica, non senza ironizzare amaramente: "mi piace l'aspetto teatrale, la psicologia dello scontro tra le persone".

Manlio Cancogni ha sempre raccontato la casualità di quell'inchiesta, descrivendo la sua professione di giornalista come una parentesi nella sua vita interamente votata all'insegnamento e alla scrittura, sue vere ed uniche passioni. L'ossessione letteraria e giornalistica di Manlio Cancogni fu sempre e soltanto la "verità". Il giornalismo pungente, impegnato e controcorrente ha sempre fatto da contraltare all'attività di scrittore totalmente immerso nella storia dell'Italia del Novecento. Firma importante del Corriere della Sera, La Stampa, Il Popolo, L'Europeo, Botteghe Oscure, L'Espresso, e altri giornali e riviste italiane, la sua penna ha conquistato alcuni fra i riconoscimenti nazionali più importanti anche in letteratura. Vince nel 1966 il Premio Bagutta con "La linea del Tomori", e il Premio Strega nel 1973 con "Allegri, gioventù". Nel 1985 è la volta del Premio Viareggio con "Quella strana felicità" e nel 1987 del Grinzane Cavour con "Il genio e il niente". Ma il romanzo a cui teneva di più, per sua stessa ammissione, era "Azorin e Mirò": un racconto autentico, sentito, della sua fraterna amicizia con lo scrittore Carlo Cassola.

Della sua vita ritirata parlava molto, così come della serenità che trovava nel rapporto con la sua terra d'origine. In una delle numerose interviste che negli ultimi anni lo hanno visto protagonista, diceva: "Tutto sommato è un vita ancora gradevole, lenta nei movimenti e con il tempo che stranamente se ne va in fretta. Mi farebbe più fatica uscire. E poi amo questa casa. Anche Fiumetto amo. Tanto quanto ho detestato Roma."

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