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Da pizzaiolo a narcos di ndrangheta, la storia di Antonio Schettini, il boss che uccise il figlio di Cutolo

Già da quattro anni ai domiciliari, Antonio Schettino, ex boss della colonia milanese della ndrangheta, dal 2018 sarà un uomo libero. Nonostante abbia confessato 59 omicidi è stato condannato alla pena di 26 anni di reclusione in virtù della sua collaborazione con la giustizia. Una collaborazione che in molti casi ha avuto lo scopo di depistare le indagini e alterare i processi.
A cura di Angela Marino
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Antonino Schettini, nato pizzaiolo a Portici, Napoli, da una famiglia di ferrovieri, è stato l'ombra discreta (di lui si trova una sola foto pubblicata dai giornali) di uno dei più noti boss di ndrangheta a Milano. Tonino Schettini, tra pochi giorni libero, dopo (solo) 26 anni di carcere duro, è una delle figure più interessanti dell'universo che in Italia ha intrecciato criminalità e frange deviate dello Stato.

Nato a Napoli, si trasferisce, nel 1979,  Calusco d’Adda, 29 minuti da Lecco, dove apre il ristorante ‘O’ Scugnizzo', ma i suoi affari non sono nel settore della ristorazione. Si fa battezzare picciotto di ‘ndrangheta, e in dieci anni scala la gerarchia diventando colonnello. Diventa braccio destro di Franco Coco, il boss che insieme a Giuseppe ‘Pepè' Flachi, è al comando della colonia dei narcos calabresi al nord. Si ritrova dalla parte dei Trovato-Flachi, nella sanguinosa faida con i Batti, concorrenti calabresi nel monopolio del narcotraffico, il cui peso viene estinto omicidio dopo omicidio dai feroci rivali, grazie, anche, ad un'alleanza con i napoletani. Nello scenario di reciproca collaborazione tra ndrine e clan di camorra, ricostruito nelle aule di tribunale, si sarebbe consumato, infatti, l'omicidio di Roberto Cutolo, figlio di Raffaele, ‘il professore' di Ottaviano. I calabresi emigrati a Milano avrebbero ucciso il figlio del capo della Nuova Camorra Organizzata per i loro alleati napoletani che, in cambio, avrebbero eliminato l'ultimo esponente dei Batti a Somma Vesuviana. Era il 1990.

Il ‘pentimento' di Schettini

È il 1992 quando finisce in cella per l’omicidio del narcos Alfonso Vegetti, a Cinisello Balsamo, ma ci vorranno due anni perché prenda, del tutto inaspettatamente, la decisione che cambierà le sorti dell'organizzazione criminale. ‘Tonino' di dissocia dalla ndrangheta e si ‘pente' offrendo alla giustizia la testa dei più potenti e crudeli boss. Comincia con l'omicidio di Roberto Cutolo, prosegue con l'omicidio dell'educatore del carcere di Milano Opera, Umberto Mormile. È qui che la collaborazione del boss comincia a rivelare il suo vero scopo. Schettini si attribuisce il ruolo di esecutore materiale del primo delitto rivendicato dalla ‘Falange Armata' quello che ha per vittima l'educatore penitenziario. Il movente, secondo Tonino, sarebbe da ricercare nel mancato rispetto degli accordi presi con il boss Domenico Papalia, da parte del trentasettenne.

L'omicidio Mormile e la ‘Falange armata'

L'accordo prevedeva il pagamento della cifra di 30 milioni di lire in cambio della concessione di una serie di benefici all'ergastolano Mico Papalia, fratello di Antonio. La tesi fu accolta dall'accusa, ma quando si arrivò in aula nel processo con rito abbreviato, Schettini rovesciò il tavolo. Invece di confermare le accuse a carico di Antonio Papalia (mandante del delitto), Franco Coco Trovato, Antonino Cuzzola, Antonio Musitano e Diego Rechichi, si avvalse del diritto di non rispondere confermando solo quanto ipotizzato sulla propria responsabilità, ammissione che gli costerà la condanna a 14 anni. La Corte d'assise di Milano, ha quel punto, non ebbe altra scelta che assolvere tutti gli imputati. Fu evidente che quel ‘pentimento' era nato a tavolino per alleggerire le posizioni di quelli che erano già in carcere, come Domenico, Mico, Papalìa, uomo di spicco uno della colonia di Platì a Milano, e scagionare quelli che erano accusati. Una collaborazione ‘guidata', ma da chi?

All'alba del protocollo Farfalla

A rischiarare il quadro arrivò la dichiarazione di Antonino Cuzzola. Pentitosi,  il secondo uomo dell'agguato a Mormile, rivelò che il boss Antonio Papalia aveva dato mandato di uccidere Mormile, perché questi aveva scoperto che suo fratello riceveva le visite clandestine di alcuni agenti dei Servizi segreti, nel carcere di Parma. In base a questa testimonianza – secondo la quale gli 007 entravano nel penitenziario con documenti falsi – vennero condannati all'ergastolo, in appello, Antonio Papalia e Franco Coco Trovato. Venne così alla luce che la collaborazione di Schettino era stata concordata con i Papalia, i Flachi, i Coco Trovato e aveva come fine quello di ‘aggiustare' i processi. Mico Papalia, dunque, era stato uno dei primi boss a parlare con i Servizi nell'ambito di quell'accordo che negli anni successivi avrebbe preso il nome di ‘Protocollo Farfalla'. Quanto alla rivendicazione del sedicente gruppo pesudoterroristico, ‘Falange armata', del delitto Mormile, durante il processo sulla trattativa Stato-mafia l'ex capo del Cesis, Francesco Paolo Fulci, dichiarerà che le telefonate con cui Falange rivendicava omicidi e stragi negli anni novanta provenivano tutte dalle sedi del Sismi.

2001, odissea nella burocrazia

Nel 2001 Antonino Schettino è – clamorosamente – libero. È fuori con altri 78 boss perché sono scaduti i tempi di detenzione preventiva prima del processo di appello. Per lui ci sarebbe il soggiorno obbligato a Pisa, ma Schettino ne approfitta per evadere la detenzione. Gli agenti della squadra Mobile lo catturano a Melegnano mentre il boss tenta di scappare con i documenti falsi a nome ‘Antonio Nigro'. Dal 2013 è agli arresti domiciliari per motivi di salute con regolare permesso di uscire per andare al lavoro. All'inizio del 2018, nonostante abbia confessato 59 omicidi, in virtù di quella collaborazione che in alcuni casi fu finalizzata al semplice depistaggio, sarà un uomo libero.

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