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Perché non siamo ancora usciti vivi dagli anni settanta: intervista a Miguel Gotor

Miguel Gotor ha raccontato nel libro Generazione ’70 il decennio lungo in cui l’Italia si trovò ad affrontare contemporaneamente lo stragismo e il periodo di più grande modernizzazione del nostro Paese.
A cura di Francesco Raiola
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Nel suo ultimo libro "Generazione Settanta" (Einaudi), Miguel Gotor, storico e Assessore alla Cultura del Comune di Roma, racconta quello che definisce il decennio più lungo del secolo breve, che fa partire dal 1966 e chiude nel 1982, allungando di qualche anno quegli anni '70 caratterizzati da un lato da una crescita economica e di diritti ma ricordati soprattutto come gli anni di piombo, quelli delle stragi neofasciste prima e rosse, poi. Servendosi, come spesso nei suoi libri, della cultura popolare, Gotor attraversa quegli anni cercando di raccontare in maniera comprensibile ai più (quindi a volte in maniera molto riassuntiva) perché quegli anni furono così importanti e violenti. Vediamo uno Stato che non riesce a trovare una stabilità, cercando di volta in volta alleanze diverse per formare numerosi Governi che cercarono di coprire, per ragioni che sfociano nell'internazionalità dei rapporti, le stragi neofasciste, additando gli anarchici e un ampio spettro di sigle a sinistra del Partito Comunista. Abbiamo chiesto a Gotor di raccontarci cosa furono quegli anni.

Come nasce l'idea del decennio più lungo del secolo breve?

Questo è il sottotitolo del libro "Generazione 70" e nasce dall'idea che gli anni '70 abbiano avuto un'influenza nella storia d'Italia che precede e poi dura anche dopo la fine e lo svolgimento cronologico di quel decennio. Io lo faccio cominciare nel 1966 e finire nel 1982.

Perché?

Perché nel 66 accadono tre eventi che se li trasformiamo in fili e li tiriamo, ci accorgiamo che dureranno per tutto il decennio che segue. C'è l'alluvione dell'Arno con decine di migliaia di ragazze e ragazzi che accorrono a Firenze per salvare i beni culturali della città, sommersi dalle acque dell'Arno. È la scintilla di un movimento giovanile solidale, partecipato, civico, con un importante protagonismo femminile che poi, appunto, caratterizzerà e formerà un'anima profonda degli anni '70. Ma sempre nel '66 avviene un evento tragico: alla Sapienza viene ucciso un giovane socialista antifascista, Paolo Rossi. Viene ucciso dai neofascisti ed è la prima vittima di un tempo nuovo, perché cade in un'università. Purtroppo anche questo sarà un filo – quello della violenza politica diffusa, militante, ideologizzata, lungo il crinale anticomunismo-comunismo-fascismo-antifascismo – che caratterizzerà gli anni '70, le piazze, le scuole, le università del Paese. Sempre nel '66 iniziano a circolare gli atti di un convegno, quello cosiddetto del Parco dei Principi, che era stato fatto in realtà nel '65, promosso dallo Stato maggiore dell'Esercito, dove viene teorizzata per la prima volta la strategia della tensione. Col senno del poi sapremo che alcuni partecipanti a questo convegno, ovvero militanti giovani di Ordine Nuovo o di Avanguardia Nazionale, organizzazioni neofasciste, saranno poi la manovalanza protagonista di quella stagione di stragi che l'Italia vivrà dal 25 aprile del 1969, quella alla Fiera Campionaria di Milano che non farà vittime ma solo feriti, fino almeno al 1980, la strage di Bologna del 2 agosto, con un momento cruciale che è il 6 agosto '74 con la strage dell'Italicus. Tra il '69 e '74 abbiamo in Italia una serie di stragi che hanno una matrice neofascista e che hanno caratterizzato la storia degli anni '70.

E perché decide, invece, di farlo terminare nell'82?

Scegliamo l'82 come momento finale di questa storia anche in questo caso per tre ragioni. La prima è la vittoria inaspettata dell'Italia ai Mondiali di calcio. Nell'aria c'è la voglia di voltare pagina: per la prima volta dopo tanto tempo le piazze italiane sono riempite da centinaia di migliaia, milioni di italiani, che per festeggiare si riappropriano del tricolore che non più divide ma unisce e parliamo di un evento sportivo e non politico. Ma l'82 è anche l'anno in cui la lotta armata, quella portata avanti dalle Brigate Rosse e da Prima Linea soprattutto nel corso degli anni '70, subisce un colpo di grazia pressoché definitivo attraverso il pentitismo e le infiltrazioni. Si registra quella ritirata strategica, così diranno ai loro documenti, delle Brigate Rosse. E sempre nell'82, il protagonismo, il prestigio e l'autorevolezza che il Presidente della Repubblica Pertini conquista in Italia, anche dal profilo politico istituzionale, aprono un tempo nuovo.

Cosa intende?

Noi avevamo alle spalle dieci e più anni di relativo appannamento della figura del Capo dello Stato. Dalla presidenza di Pertini in poi inizierà una nuova stagione con un protagonismo politico e soprattutto istituzionale, evidentemente, e di recupero di prestigio della figura del presidente della Repubblica. Queste ragioni, simmetricamente, mi sono sembrate interessanti per dare un calcio d'inizio e un fischio finale al mio libro.

Qual era il suo obiettivo principale nel raccontare questi anni?

Io sono uno studioso della cosiddetta operazione Moro, vale a dire del sequestro e della morte di Aldo Moro, avvenuta nella primavera del '78, e ho avvertito una esigenza intellettuale, storiografica, scientifica di provare a fare un affresco degli anni in cui quella tragedia conquista l'epicentro. In ogni pagina cerco di raccontare al mio ideale lettore che gli anni '70 sono come un satellite, la Luna, che ha una doppia faccia e per essere compresi questa faccia deve essere vista complessivamente. Abbiamo una faccia che è certamente quella della violenza, tant'è che oggi gli anni '70, e a me questo spiace, sono ricordati soprattutto come anni di piombo. C'è, a mio giudizio, un eccesso di memorialistica, di nostalgia e di reducismo, rispetto al racconto di quel periodo, che invece ha bisogno di essere sottoposto alle lenti e allo sguardo dell'analisi storica. Quindi c'è una faccia che è certamente quella della violenza, che spesso è militante, giovanile, diffusa. Abbiamo parlato della violenza dello stragismo di matrice neofascista, così come abbiamo detto della lotta armata del partito armato di estrazione ideologica marxista-leninista: il Partito armato era una costellazione di centinaia di sigle all'interno delle quali, attraverso un processo storico che va raccontato, conquistano l'egemonia delle Brigate Rosse e Prima Linea. Abbiamo poi anche un paio di stragi, a mio parere, che vanno inserite dentro un contesto internazionale che magari possono avere avuto una manovalanza italiana come spesso accade, però hanno un'ispirazione nazionale.

Tipo?

Tra il '72 e il '73 la questione è il conflitto mediorientale tra arabi, palestinesi e israeliani che in quel biennio, soprattutto in quel biennio, scelgono l'Italia come campo di battaglia di una guerra segreta. Allora questa, come vedete, è la violenza – categoria generalissima – di quegli anni, che merita un'analisi differenziata per essere compresa. Cioè sono fenomeni diversi: la violenza nelle piazze e gli scontri, anche durissimi, che avvenivano nel corso anni '70, non hanno nulla a che vedere con la strategia della tensione e le stragi neofasciste e neppure con la lotta armata, cioè la scelta di ferire e di uccidere un uomo, ma anche di essere ucciso, di essere ferito.

L'altra faccia della Luna, invece, qual è?

L'altra faccia della Luna è la constatazione che gli anni '70 sono forse il periodo di più grande crescita e modernizzazione del nostro Paese a partire dal 1861 ad oggi. Tante riforme, nella scuola, nella vita delle persone, nel lavoro, nella famiglia, nella magistratura, nella medicina, nella sanità ci fanno pensare a quel secolo come un secolo con un valore forte, importante, progressivo e di partecipazione civile di tanti italiani. Il punto è capire come mai queste due facce convivono e sono parte di uno stesso satellite.

Quanto era realmente importante l'Italia come luogo strategico nello scacchiere internazionale?

A mio parere non esiste storia nazionale di nessun paese che non possa e non debba essere anche la storia del suo nesso con la dimensione internazionale, ed è proprio il rapporto nazionale-internazionale la chiave interpretativa per comprendere i processi storici. Questa è un'indicazione di metodo che io – come tantissimi – porto avanti nel comprendere quel decennio. È un decennio di guerra fredda, questa Guerra fredda ha previsto una bipolarizzazione conflittuale, strategica, tra Washington e Mosca, tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Ma ci sono una serie di sotto conflitti che non devono essere sottovalutati e anzi possono avere influenzato e hanno influenzato la storia italiana.

Parliamo del conflitto mediorentale di cui parlava prima?

Sì, mi riferisco al conflitto mediorientale che scaturisce dalla posizione geografica del nostro Paese, il quale non deriva da una scelta ma è un dato di fatto: l'Italia è da millenni una grande passerella di eserciti, di commerci, di informazioni che unisce il Nord Europa al Mediterraneo e all'area mediorientale. Questa questione si incendia negli anni '70, in particolare a partire dal '73, con la prima crisi energetica che quel modello di sviluppo incentrato sul petrolio vive e subisce, e inevitabilmente impatta con l'Italia perché alla politica e all'ideologia si intreccia la questione centrale, che è quella dell'approvvigionamento energetico del nostro Paese e dell'area del Nord Europa, una storia che ha a che vedere con la destabilizzazione che ci sarà nell'area del Nord Africa e di tutti i Paesi che, anche nel Medio Oriente, si affacciano sul Mediterraneo. Attenzione che questo macro tema, il tema energetico, si sovrappone a un'altra grande questione storica, che sono i processi di decolonizzazione che tra gli anni '50 e '60 riguardano quell'area. L'Italia è al centro di questo doppio conflitto. Poi c'è anche un conflitto ideologico, comunismo-anticomunismo, la cortina di ferro… noi siamo un Paese cerniera tra due mondi, che ha scelto di essere nella parte Atlantica, che ha scelto la sua vocazione europea, con al proprio interno il più importante partito comunista. Questa è una questione che c'è, non è che non va vista, ma va calata e diventa più complessa dentro quest'altra dimensione.

Abbiamo il più importante Partito comunista ma abbiamo anche tutti gli strascichi, nelle Istituzioni, del fascismo con cui ci troviamo, volenti o nolenti, a farci i conti.

Anche questo è necessario ricordare altrimenti si è strabici. Un'altra peculiarità del nostro Paese è che noi abbiamo inventato il fascismo e il fascismo trascina l'Italia in una crisi tragica della nazione. Non spegne soltanto la democrazia, il pluralismo partitico e sindacale, non è soltanto quel regime che firma le leggi razziali del '38, ma è quel regime che porta l'Italia ad allearsi con la Germania di Hitler e a intrecciare il destino del nostro Paese con il nazismo. Quando abbiamo la sconfitta dell'Italia e della Germania, la morte di Mussolini, la morte di Hitler, l'affermazione della Resistenza, il ruolo fondamentale degli alleati nella liberazione del nostro Paese. Ecco tutto ciò che c'era prima. Quel ventennio non scompare, abbiamo milioni di italiani che abbassano il capo, costretti dagli eventi, ma non cambiano testa. Il neo fascismo sarà un fenomeno molto importante, che avrà un suo valore, che è più largo e più penetrante dal punto di vista sociale e direi anche psicologico, dell'aspetto elettorale, parlamentare. Per semplificare: dei voti che prenderà il Movimento Sociale Italiano. È stata una cosa più complessa, più profonda, più multiforme, che naturalmente è un'altra caratteristica italiana.

Sono anni di trame e sottotrame, di manovre segrete, insomma, brodo perfetto per i complottisti. Lei, da storico, che rapporto ha col complottismo, avendo visto e letto ciò di cui il Potere è capace?

Il cosiddetto complottismo, la dietrologia, sono una delle forme con cui nella cultura pubblica del nostro Paese si solidifica e si rafforza un atteggiamento di tipo antipolitico, che è un'altra caratteristica originale di lungo periodo della storia d'Italia, delle classi dirigenti e intellettuali italiani. Fare politica attraverso l'antipolitica, conquistare il consenso attraverso la svalutazione del Parlamento e dei principi di rappresentanza non è veramente una storia degli anni '70, è una storia che inizia con l'Unità d'Italia. Allora, registrata questa caratteristica del lungo periodo, lo studioso di Storia deve anche capire per quale ragione nelle democrazie i bilanci dello Stato, per ragioni di sicurezza, evidentemente, destinano quote ingentissime delle loro risorse ai servizi di intelligence e ai cosiddetti servizi segreti. Evidentemente se lo fanno, visto che siamo strutture razionali e ragionevoli, è perché esse devono svolgere un ruolo ed è un ruolo che ha una sua importanza.

Ok, però in quel decennio lungo è successo qualcosa di ancora più strano: che ruolo assunsero?

Negli anni '70 quel ruolo è stato un ruolo particolarmente attivo perché c'era questa questione geopolitica nazionale e internazionale che rendeva particolarmente incandescente il calderone italiano. Nei miei libri, in questo in particolare, non utilizzo mai l'espressione ‘servizi segreti deviati' e non lo faccio perché è auto-consolatoria l'idea che delle piccole mele marce hanno deviato dalle loro responsabilità costituzionali. Non è così, perché se noi vediamo non solo dal punto di vista giudiziario ma anche dal punto di vista storico, non possiamo che riconoscere che i condannati o i coinvolti in situazioni drammatiche della storia del nostro Paese sono i vertici dei servizi, i numeri uno e i numeri due di quelle strutture. Allora il tema deve essere raffinato: secondo me e secondo gli studiosi ai quali ho dato credito, una caratteristica durante la Guerra fredda è stata l'esistenza di una doppia lealtà da parte dei gruppi dirigenti, fra cui naturalmente anche degli apparati di sicurezza, in generale, e degli apparati di antiterrorismo. Una doppia lealtà che si fondava su questa questione, cioè sull'esistenza di una Costituzione formale che era una Costituzione antifascista, ma al tempo stesso essa coabita con una Costituzione materiale che invece aveva un'impronta anticomunista. E da questa contraddizione, che è una contraddizione peculiare dell'Italia dalla Guerra fredda, secondo me è zampillato il tanto sangue della violenza di cui abbiamo parlato e anche i comportamenti irrituali o anticostituzionali di una parte di questi apparati di intelligence. Non tutti, naturalmente, bisogna sempre discernere, comprendere, capire significa distinguere

Come mai secondo lei c'è chi vuol far dubitare ancora sulla matrice neofascista di quelle stragi?

Se ci concentriamo sulle stragi degli anni '70, ad esempio su quella sequela di stragi che tra il '69 e il '74, da piazza Fontana – 17 morti -, al treno Italicus, passando per la strage di Brescia e toccando la strage di Peteano, la matrice neofascista è inequivocabile sia sul piano giudiziario che su quello storico. Queste stragi sono state fatte da Ordine Nuovo che era una struttura in particolar modo radicata nel Triveneto, in città come Rovigo, Vicenza, Verona, Mestre e con propaggini naturalmente anche nel Milanese. Prendiamo il caso della strage di Brescia: recentemente, dopo un processo lunghissimo durato oltre 40 anni – questo sì che è un dato di fatto e un problema, cioè una giustizia somministrata in modo così dilatato nel tempo – hanno condannato con sentenza passata in giudicato e sono in carcere. Uno è morto l'anno scorso, Carlo Maria Maggi, che era il capo di Ordine Nuovo del Triveneto e un altro, neofascista, è ancora in galera, condannato all'ergastolo. Allora i depistaggi o gli inpistaggi, che sono due diverse tecniche, sostanzialmente avevano questo fine. C'era una piena consapevolezza da parte degli apparati di intelligence, dei servizi di sicurezza e dell'antiterrorismo e anche dei vertici dello Stato, cioè degli uomini politici più importanti del tempo – i Saragat, i Rumor, i Moro -, che le stragi compiute in quel periodo avessero una matrice neofascista.

E in cosa è consistito il depistaggio?

Attribuirle agli anarchici o ai rossi. Uno degli esempi più chiari è una strage tentata che porterà all'arresto dello stragista, quindi un caso più unico che raro. Siamo nel '73 quando viene arrestato Nico Azzi, un neofascista che stava mettendo una bomba nella toilette di un treno, ma per un errore tecnico avviene una piccola deflagrazione, lui è ferito, non muore, viene catturato e quando arriva la polizia ferroviaria per catturarlo si accorge che intorno alla toilette aveva sparso dei giornali di Lotta Continua. Ora, se questo incidente di percorso non fosse accaduto, quella bomba sarebbe esplosa, ci sarebbe stato verosimilmente un deragliamento, ci sarebbero stati dei morti, avremmo avuto un'altra strage e l'investigazione avrebbe preso una pista anarchica o in questo caso rossa, attribuendone la responsabilità a Lotta Continua proprio perché erano stati trovati dei giornali di rivendicazione che in realtà siamo sicuri che erano stati lasciati dallo stesso Azzi.

Tra le critiche che le sono state mosse e mi paiono interessanti da sottoporle ci sono da una parte la questione femminista, in effetti attraversata in maniera molto veloce e dall’altra una sorta di racconto unico – quasi un appiattimento – di ciò che c’era alla sinistra del PCI. Che ne pensa?

Il bello di un libro è come il bello di un figlio, che cresce, è libero e cammina con le sue gambe. Naturalmente se è una cosa fatta con onestà, al tempo stesso deve accettare di sottoporsi a critica. Per quanto riguarda la storia del femminismo, le proporzioni non ci dicono che il fenomeno è stato trascurato. La quantità di pagine che sono dedicate al tema potevano essere fatte meglio, potevano essere meno urticanti, perché io ho deciso – ed è una scelta libera – di sviluppare un particolare tema, quello del femminismo armato, che è un tema che c'è stato e che vedevo che era rimosso dal dibattito pubblico. Per quanto riguarda lo sguardo della realtà degli anni '70, è possibile che ci possano essere, su temi così caldi, delle divergenze. Io naturalmente rivendico la serietà del mio lavoro che è un affresco e l'affresco è un genere. È evidente che ci sono delle parti che sono fatte meglio e più approfondite e altre parti invece dove ad esempio si è debitore degli studi altrui, cioè, se io dovessi fare un'autocritica al mio libro sarebbe quello del tema dismesso o trattato poco, in maniera insufficiente, dell'eroina.

E come mai non l'ha approfondito?

Ci sono pochissimi studi su un fenomeno che è stato un fenomeno centrale, quello della tossicodipendenza in generale e della diffusione dell'eroina in Italia. Però nel momento in cui uno si fa un affresco e registra questo problema si deve fermare e in maniera autonoma, per un paio d'anni, si mette a studiare da solo, però poi il libro non lo scrive. Oppure, oltre l'eroina, io resto sempre meravigliato di come, a distanza di oltre quarant'anni dal fenomeno e dalla disponibilità di documenti, non esista un libro, scientificamente, di carattere accademico-storico, dedicato alla P2 e c'è una disponibilità documentaria enorme. E allora anche lì o uno si ferma e per un anno si mette in autonomia a studiare la P2 e quindi poi riesce a dedicare in un affresco una decina di pagine al tema oppure rischia un'insufficienza. Quindi ecco, faccio anche questi altri due esempi rispetto a quelli che sono stati sollevati, che sì, registrano dei limiti di un lavoro, ma un lavoro è sempre la metafora della vita: la vita è sempre una riflessione sul limite, sui limiti e sui propri limiti.

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