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Cosenza, migranti sfruttati e costretti a vivere a decine in stalle e porcili: 49 denunce

Decine di uomini sfruttati nei campi e costretti a vivere in porcilaie in condizioni igieniche umilianti. A capo dell’organizzazione di sfruttatori un pachistano in affari con uomini della ‘ndrangheta locale.
A cura di Antonio Palma
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Migranti sfruttati come manodopera a basso costo nei campi agricoli della zona e costretti dai "caporali" a vivere a decine in stalle e porcili adibiti a veri e propri dormitori in condizioni igieniche umilianti. È quanto hanno scoperto gli uomini della Guardia di finanza a Montegiordano, in provincia di Cosenza, al termine di una complessa indagine partita nel febbraio del 2015. L'inchiesta, coordinata dalla Procura della Repubblica di Castrovillari, era stata avviata a seguito dei risultati dei controlli dei transiti sulla statale ionica che avevano potato alla luce movimenti quotidiani di immigrati accompagnati con furgoni nei campi. I successivi accertamenti, proseguiti fino a maggio di quest'anno, infine hanno permesso di accertare un vero e proprio sistema di caporalato in tutta la zona dedito allo sfruttamento dei migranti e con gerarchie precise

Al vertice del sistema, come accertato dalle Fiamme Gialle, vi era un uomo di nazionalità pachistana diventato da tempo il punto di riferimento nella piana di Sibari per tutti gli imprenditori agricoli che avevano bisogno di manodopera illegale e a basso costo. L'uomo aveva organizzato il traffico con alcuni soggetti con precedenti già ritenuti affiliati alla ‘ndrangheta locale. In tutto l'inchiesta ha portato alla denuncia di 49 persone accusate di sfruttamento e lavoro nero.

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Come dimostrano le immagini scattate dai militari, una volta reclutati ai migranti venivano tolti i documenti e poi gli uomini venivano alloggiati in vere e proprie stalle e porcili adibiti a dormitori con semplici materassi e reti in condizioni disumane. Gli operai infine erano costretti a lavorare in condizioni prive di ogni minima sicurezza e con paghe irrisorie. Secondo l'accusa il "caporale" pachistano con questo sistema sarebbe riuscito a guadagnare circa 250mila euro in appena un anno. Parte dei proventi sarebbero finiti alle ‘ndrine locali, il resto trasferiti in Pakistan attraverso servizi di money transfer.

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