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Chi sono i “lupi solitari” dell’Isis e dove nasce il loro odio verso l’Occidente

L’attacco a Nizza del 14 luglio 2016 è stato l’attentato più letale mai realizzato con un veicolo in Europa. Nei due anni che sono seguiti alla strage, in tutto il mondo sono stati numerosi gli atti terroristici di questo tipo rivendicati poi dall’Isis. Per capire chi sono i “lupi solitari” del sedicente Stato Islamico e fino a che punto è reale la minaccia jihadista di nuovi attentati, Fanpage.it ha intervistato due ricercatori dell’Osservatorio radicalizzazione e terrorismo internazionale dell’Ispi.
A cura di Mirko Bellis
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Mohamed Lahouaiej-Bouhlel e il camion utilizzato nell'attentato del 14 luglio 2016 a Nizza
Mohamed Lahouaiej-Bouhlel e il camion utilizzato nell'attentato del 14 luglio 2016 a Nizza

Due anni dopo il terribile attentato a Nizza, in cui persero la vita 86 persone, il pericolo di nuovi attacchi terroristici di matrice jihadista resta alto. Il 14 luglio 2016, Mohamed Lahouaiej-Bouhlel, un “lupo solitario” affiliato all’Isis, a bordo di un camion seminò la morte tra le migliaia di persone riunite sul lungomare della città francese per assistere allo spettacolo pirotecnico, culmine dei festeggiamenti in ricordo della presa della Bastiglia nel 1789. L’attacco a Nizza è stato è stato l'attentato più letale mai realizzato con un veicolo in Europa. Nei due anni che sono seguiti alla strage, in tutto il mondo sono stati numerosi gli atti terroristici di questo tipo rivendicati poi dal sedicente Califfato islamico. Una lunga di scia di morte costata la vita a decine di civili innocenti. Per cercare di approfondire la questione legata ai lupi solitari del sedicente Stato islamico, Fanpage.it ha intervistato Silvia Carenzi e Marco Olimpio, due ricercatori dell’Osservatorio radicalizzazione e terrorismo internazionale dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale).

È possibile tracciare un identikit dei cosiddetti lupi solitari dell’Isis?

Per quanto riguarda gli attentatori dell’Isis, non esiste un profilo unico, come non esiste un unico percorso di percorso di radicalizzazione. Le loro caratteristiche, poi, differiscono da Paese a Paese. Ad ogni modo – al netto di questi distinguo – si possono individuare alcune tendenze complessive. Ad esempio, osservando il database originale realizzato dall'Osservatorio radicalizzazione e terrorismo internazionale dell’Ispi – che si concentra sugli attacchi jihadisti perpetrati nei Paesi occidentali a partire dal giugno 2014 – si nota che la maggior parte degli attentatori (l’82%) ha un'età inferiore ai 35 anni. Naturalmente non mancano episodi in cui hanno agito attentatori meno giovani: basti pensare a Khalid Masood, responsabile dell’attentato di Westminster del marzo 2017. Nella quasi totalità dei casi, inoltre, gli attentatori erano di sesso maschile; solo in 2 casi ha agito una donna. Il 72% dei soggetti era noto alle autorità; la metà di loro aveva precedenti penali, e il 27% di loro aveva scontato un periodo di detenzione in carcere prima di compiere l’attacco. Il 15% di loro era composto da ex foreign fighters. Infine, una ricerca dello studioso Thomas Hegghammer ha mostrato che – per quanto sia impossibile tracciare delle generalizzazioni – i jihadisti europei, in media, tendono a caratterizzarsi per un rendimento socio-economico inferiore rispetto a quello della popolazione generale; sono dunque degli “underperformers”.

Il termine “lupo solitario” può risultare fuorviante, per svariate ragioni. È un’espressione che viene frequentemente usata in quei casi in cui un attacco è eseguito da un singolo individuo – spesso, presupponendo che sia autonomo dal gruppo terroristico di riferimento. La prima criticità è data dal fatto che un attentatore che agisce su base individuale non è necessariamente indipendente dal punto di vista operativo: in svariati casi, le indagini hanno poi fatto emergere legami (forti o deboli) con un più vasto network. Ad esempio, Mehdi Nemmouche – che nel maggio 2014 ha colpito il Museo ebraico di Bruxelles – aveva precedentemente combattuto in Siria, ed era stato inviato in Europa da figure chiave del sedicente Stato Islamico (IS). Riaz Khan Ahmadzai, che nel luglio 2016 ha colpito i passeggeri di un treno presso Wurzburg, in Germania, ha ricevuto istruzioni in via telematica, da parte di miliziani operanti nei territori di IS. Inoltre – anche in quei casi in cui un attentatore agisce autonomamente, senza ricevere alcuna indicazione dal gruppo di riferimento – è improbabile che la sua radicalizzazione e mobilitazione avvengano nel vuoto. Nel processo di radicalizzazione, infatti, spesso l’individuo interagisce (online e/o offline) con altri soggetti animati da simili vedute estremiste.

Dove nasce la loro guerra al mondo occidentale?

Il discorso sulle cause della radicalizzazione è particolarmente complesso. I jihadisti europei, in media, sembrano scontare condizioni socio-economiche più critiche rispetto alla popolazione generale – e dunque potrebbe emergere una correlazione tra deprivazione e terrorismo in ambito europeo (mentre altrove non sussiste questa relazione). Resta da capire se e fino a che punto vi sia un nesso causale tra questi due fattori. Oltre alle spiegazioni di carattere socio-economico, un altro aspetto che viene preso in esame per spiegare i processi di radicalizzazione e mobilitazione è il concetto di “radicalizzazione per contatto”: determinati soggetti possono infatti acquisire vedute estremiste interagendo con un “agente radicalizzante” – un leader carismatico, talora un predicatore o un ex combattente. Questo dinamiche di gruppo possono dare origine ai cosiddetti “hub” (ossia poli) di radicalizzazione sul territorio. Probabilmente, per acquisire un quadro più completo e realistico degli schemi di radicalizzazione, occorrerebbe cercare di comprendere se e come questi elementi interagiscono tra loro.

Come si possono prevenire attentati come quello di Nizza o Berlino?

Forse, è più opportuno parlare di “diminuzione e/o contenimento del rischio”. Ad esempio, per far fronte agli attacchi compiuti con veicoli, in varie città sono state collocate barriere di sicurezza, a protezione dei siti più rilevanti (monumenti di interesse, vie centrali particolarmente affollate, ecc.). Se è vero che queste misure contribuiscono a contenere la minaccia, occorre anche ricordare che non esiste il rischio zero. Nell'impossibilità di far sì che un luogo risulti completamente immune agli attacchi, dunque, è bene concentrarsi sul lato preventivo – agendo su più fronti e impiegando diversi strumenti. Da un lato, ci sono le usuali misure dell’antiterrorismo, che si concentrano sulla raccolta di informazioni di intelligence con il fine di smantellare nuclei terroristici; se l’attentatore ha legami relativamente solidi con network terroristici, la sua intercettazione è più probabile (mentre, in caso contrario, il compito risulta ben più arduo). Dall'altro lato, al di là di questa tradizione dimensione “repressiva”, in ambito europeo ed extraeuropeo è stato abbracciato anche un nuovo paradigma, che si focalizza sulla prevenzione della radicalizzazione dei soggetti a rischio (“contro-radicalizzazione”) e sulla “de-radicalizzazione” degli individui che hanno già intrapreso la strada dell’estremismo.

È aumentata la cooperazione tra servizi di intelligence?

Le risposte delle forze di polizia europee sono state abbastanza simili. Il problema principale che hanno avuto Paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania, è stata la quantità di persone segnalate come “radicalizzate” da monitorare. In Francia, il Ministero dell’Interno ha parlato di circa 20.000 individui segnalati, in Gran Bretagna 24.000, numeri elevati che spesso hanno saturato il lavoro degli investigatori che difficilmente disponevano delle risorse necessarie per seguire tutte le persone da monitorare. Intorno al 2015 c’è stato comunque un forte cambiamento. Le autorità hanno iniziato a scambiare molte più informazioni e a coordinarsi tra loro maggiormente.

La minaccia terroristica di stampo jihadista continuerà ancora per anni?

Il jihadismo non è un fenomeno inedito, ma – piuttosto – una realtà le cui radici risalgono a svariati decenni fa, e che nel corso degli anni ha modificato alcuni tratti della propria fisionomia. In generale – anche dopo l’11 settembre – si è caratterizzato per un andamento ciclico, nel quale periodi ad alta intensità (si pensi agli anni 2004-2005, segnati in particolare dagli attentati di Londra e Madrid) si sono inframezzati a periodi di relativa contrazione del fenomeno. L’ascesa del sedicente Stato Islamico nel 2014 e la scia di attacchi che ne è seguita hanno chiaramente marcato un momento di picco.

Per quanto concerne il futuro, non è semplice elaborare previsioni e scenari. Ad ogni modo, uno studio pubblicato alla fine del 2016 ha indicato la presenza di differenti fattori di rischio nel medio termine: ad esempio, la persistenza di aree di conflitto nel Grande Medio Oriente; in secondo luogo, il numero significativo di ex foreign fighters e militanti che potrebbero agire come “imprenditori jihadisti” (ossia leader e attivisti influenti in grado di favorire la formazione di cellule e network locali); poi, il potenziale ampliamento del bacino di reclutamento jihadista, alla luce delle difficili condizioni socio-economiche sperimentate da una porzione delle comunità musulmane. Svariati attori della galassia jihadista potrebbero tentare di sfruttare e/o far leva su alcune di queste variabili.

Quali sono i rischi per il nostro Paese?

La scena jihadista italiana sta registrando un cambiamento. Mentre negli anni passati gli individui radicalizzati erano principalmente composti da immigrati di prima generazione, si sta registrando un incremento di casi di radicalizzati cresciuti o nati in Italia. Inoltre il fenomeno sta diventando sempre più imprevedibile in quanto le cellule e gli individui sono meno strutturate, rendendole quindi più difficili da individuare e smantellare.

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