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Cassazione: infarto per troppo lavoro? La responsabilità è dell’azienda

La Corte di Cassazione ha confermato la responsabilità di una nota azienda di telecomunicazioni che dovrà risarcire i familiari di un dirigente morto di infarto.
A cura di Susanna Picone
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Se il dipendente muore d’infarto a causa dell’eccessivo carico di lavoro a cui è stato sottoposto, il responsabile è il datore di lavoro. Lo dice la Corte di Cassazione che ha confermato la responsabilità di una azienda di telecomunicazioni che ora dovrà risarcire con 850mila euro la vedova e una figlia minorenne di un dirigente morto di infarto. I giudici hanno rigettato il ricorso della società contro la sentenza con cui la Corte d'appello di Roma, ribaltando il verdetto emesso in primo grado, aveva stabilito il risarcimento danni per i familiari dell'uomo che negli ultimi mesi di lavoro aveva operato – secondo quanto denunciato dalla famiglia – in “condizioni di straordinario aggravio fisico”. La sua attività lavorativa si era intensificata “fino a raggiungere ritmi insostenibili”, con una media di “circa 11 ore giornaliere” e con il “protrarsi dell'attività a casa e fino a tarda sera”. Una perizia aveva accertato che l’infarto era correlabile, in via concausale, “con indice di probabilità di alto grado, alle trascorse vicende lavorative”.

L’azienda si era difesa rilevando che tali ritmi serratissimi erano dovuti soltanto alla “attitudine” del dipendente “a sostenere e a lavorare con grande impegno” e al suo coinvolgimento intellettuale ed emotivo nella realizzazione degli obiettivi. Inoltre l’azienda aveva detto di non conoscere le modalità con cui il dipendente esplicava la sua attività lavorativa dato che lui non aveva “mai espresso doglianze o manifestato disagi fisici”. Ma questa tesi non è stata condivisa dalla Corte di Cassazione: “La responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro – si legge nella sentenza – fa carico alla società, la quale non può sottrarsi agli addebiti per gli effetti lesivi dell'integrità fisica e morale dei lavoratori che possano derivare dall'inadeguatezza del modello adducendo l'assenza di doglianze mosse dai dipendenti o, addirittura, sostenendo di ignorare le particolari condizioni di lavoro in cui le mansioni affidate ai lavoratori vengono in concreto svolte”.

La sentenza della Cassazione – Infatti “deve presumersi, salvo prova contraria, la conoscenza, in capo all'azienda, delle modalità attraverso le quali ciascun dipendente svolge il proprio lavoro, in quanto espressione ed attuazione concreta dell'assetto organizzativo adottato dall'imprenditore con le proprie direttive e disposizioni interne”. La Cassazione ha osservato che era emerso che il dipendente “per evadere il proprio lavoro era costretto a conformare i propri ritmi di lavoro all'esigenza di realizzare lo smaltimento nei tempi richiesti dalla natura e molteplicità degli incarichi affidatigli” dalla società. È stato infine accertato che “l'oggettiva gravosità e l'esorbitanza dai limiti della normale tollerabilità non era in alcun modo riconducibile a iniziative volontarie” del lavoratore. I giudici hanno concluso nel ricordare che “sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.

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