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Bettino Craxi e la toponomastica, il simbolo di una crisi irrisolta

Il dibattito sul toponimo di Craxi non è il tentativo di preservare la memoria biografica di un personaggio di rilievo, ma è la spia di un irrisolto della storia, di un passato che non passa, di un’elaborazione del lutto rinviata.
A cura di Marcello Ravveduto
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Foto archivio Cioni-Spinelli/LaPresse archivio storico
Foto archivio Cioni-Spinelli/LaPresse archivio storico

Via Bettino Craxi a Ragusa è parallela a via Nicola Calipari, via Giuseppe Impastato, via Palmiro Togliatti e perpendicolare a via Nilde Iotti, via Mario Scelba e via S. Pio da Pietrelcina. Ci sono poi piazza Craxi a Rieti, a Lissone (Monza) e ad Aulla (Massa Carrara). La storia di Aulla però è la più interessante. Nel 2003 il sindaco, Lucio Barani, gli intitola la piazza ed erige una statua su cui è scolpita la frase: «A Bettino Craxi, statista, esule e martire». L’amministrazione subentrante la dismetterà.  Nel 2010 lo scultore Maurizio Cattelan, girovagando nel cuore antico di Massa Carrara, ritrova la statua e propone, in occasione della Biennale del post-monumento, una trasformazione realizzando un piccolo tempio greco in bassorilievo, con due angeli piegati e due putti che sollevano il profilo del leader socialista.

Il bello viene quando Cattelan propone di sostituire temporaneamente la statua di Mazzini con la sua opera. Apriti cielo! Gruppi su Facebook, comitati spontanei, sit-in e via dicendo. Il curatore della Biennale getta acqua sul fuoco: «La sostituzione del monumento è provvisoria, dura solo i quattro mesi della Biennale, così nel frattempo possiamo ripulire la superficie e rafforzare i vecchi perni dell'Ottocento».

Ogni volta che si tenta di inserire Craxi nell’Empireo degli italiani memorabili si rinfocola l’Italia dei Guelfi e dei Ghibellini. Il 28 dicembre 2006 Prodi si dichiara favorevole a «intitolare una via a Bettino Craxi». Il web, quasi 2.0, s’indigna: “Il Pesa-nervi”, un blog di politica e impegno civico, accusa il Premiere di non avere «memoria storica» e di essere «senza vergogna». Nel marzo 2007, sul blog dello storico Gennaro Carotenuto appare un articolo di dissenso alla scelta del Consiglio comunale di Napoli di intitolare una piazza al «grande statista scomparso».

Nel 2009, in vista del decimo anniversario della morte (19 gennaio 2000), l’allora sindaco di Milano, Letizia Moratti, annuncia di voler intestare una piazza o un giardino all’illustre concittadino, campione del riformismo. Ma le polemiche frenano gli entusiasmi. Il 19 gennaio 2010 arriva la commemorazione di Giorgio Napolitano: «Su Craxi è giunta l'ora di un giudizio non acritico ma sereno, di ricostruzioni non sommarie e unilaterali di almeno un quindicennio di vita pubblica italiana. Nella vicenda di Craxi ci sono luci e ombre ma lasciò un'impronta incancellabile». Un passaggio importante perché non parla solo da Presidente della Repubblica ma anche da ex dirigente comunista, tirato in ballo da Craxi durante il processo Enimont sulla questione dei finanziamenti occulti al Pci da parte del regime sovietico.

Il via libera di Napolitano provoca una nuova ondata di proposte: a Lucca, a Melfi, a Galatone, ma solo la prima riesce a chiudere positivamente la pratica. Intanto l’ex sindaco di Grosseto, Alessandro Antichi, rivendica di essere stato uno dei primi ad intitolare una piazza a Craxi: «Credo che la toponomastica debba essere lo specchio della memoria civica e Bettino fa parte della nostra storia. Mi fanno sorridere i discorsi sulle condanne. Con questa logica non dovrebbero esistere vie dedicate a Giuseppe Mazzini e, per restare sul locale, a Davide Lazzaretti. Per non parlare di via Unione sovietica che non mi sognerei di eliminare».

A Cagliari l’istanza del consigliere comunale Mondo Perra alimenta una crisi politica che coinvolge anche il professore Casula, componente della commissione toponomastica, schieratosi a favore della proposta di Perra: «faccio lo storico e non il moralista». Al momento non esiste a Cagliari né una via, né una piazza intitolata a Bettino Craxi. In provincia di Nuoro c’è, invece, il caso di Loceri: nel 2013 il sindaco di estrazione socialista inaugura piazza Bettino Craxi alla presenza del figlio Bobo; nel 2015 la nuova giunta del Pd, dando seguito ad una petizione sottoscritta da quattrocento cittadini, cambia il nome in piazza degli Emigranti.

Simpatico è il caso di Firenze. Nel gennaio 2011 il consigliere Marco Stella del Pdl invita il sindaco a trovare insieme un luogo da dedicare a Bettino Craxi. La risposta del sindaco, Matteo Renzi, arriva dopo un anno: «Con tutto il rispetto e la pietas, sono contrario. Dedichiamola a Pino Puglisi, a Iqbal Masih, perché via Bettino Craxi non ha un valore pedagogico. Le vie servono per dire ai ragazzi cosa hanno fatto di grande quei personaggi».

Veniamo all’oggi. L’attuale sindaco di Milano, Giuseppe Sala, dice di non essere contrario all’intitolazione, vuole, però, che siano i cittadini a decidere (ovvero tutto e niente). Alcuni ambienti del Partito democratico e della società civile ritengono sia meglio rendere onore ad Ambrogio Mauri, morto suicida a causa del sistema di corruzione che caratterizzò la “Milano da bere”. Il Movimento 5 Stelle vuole, al contrario, una via per Dario Fo. Poi arriva il diniego di Di Pietro: «Le vie vanno intestate a persone che debbono essere un buon esempio, un punto di riferimento per i giovani e per le future generazioni. Me lei se lo immagina un bambino che passeggiando per Milano prima vede le targhe dedicate a Silvio Pellico, o a eroi e martiti della Resistenza, e poi quella di questo signore?».

Insomma, non riusciamo ad uscire dalla logica dell’uso pubblico. Sia un fatto storico o un personaggio di rilievo il vaglio avviene sulla base della vulgata politica del presente che legge in maniera retroattiva il passato in funzione di una tattica/tecnica comunicativa il cui obiettivo non è la conoscenza della storia o la trasmissione della memoria ma il consenso elettorale.

Usano una strada o una piazza come se stessero scrivendo un manifesto politico e così può capitare che tu vinci e metti il nome, poi perdi e ti cancellano il toponimo come se avessero abbattuto un palazzo abusivo. Questa non è damnatio memoriae, questa è assenza di cultura storica, che una volta era il sale della politica.

L’analisi della toponomastica può aiutare a ricomporre i processi storici «soprattutto se si pensa che l’attribuzione dei nomi delle vie, al pari dei monumenti o delle feste, offre… il duplice vantaggio di confermare (o rivedere) i caratteri originali della tradizione locale e insieme di assecondare la “confluenza di qualche significativo ‘pezzo’ di storia della ‘piccola patria’ nell’alveo della ‘grande patria’». La sostituzione di vecchi toponimi, con denominazioni che ricordino date memorabili e nomi illustri scomparsi, rinvia a una tendenza presente in tutti i momenti di transizione da un assetto politico ad un altro. Le variazioni dell’odonomastica, nel lungo periodo, permettono di “misurare” il grado di intensità, simbolica ed emotiva, dei mutamenti storici e della percezione che ne ebbero le élites delle amministrazioni municipali.

I cambiamenti della toponomastica hanno caratterizzato tutti i passaggi salienti della nazione: l’Unificazione, la Prima guerra mondiale, il Fascismo e la Repubblica. Ognuno di questi eventi ha avuto un impatto immediato nelle comunità locali con la ridefinizione dell’odonomastica: i nomi rappresentativi di un regime anteriore vengono sostituiti con l’intitolazione di piazze e strade a protagonisti o a eventi rilevanti del regime subentrante: una cesura che diviene parte integrante del vissuto quotidiano, trasformando le coordinate urbane. I rappresentanti degli enti locali, per adeguarsi al nuovo stato di cose o per sottolineare un particolare indirizzo politico-sociale, rinominano i luoghi della geografia urbana ridisegnando la memoria comunitaria con un processo di selezione che attribuisce ad alcuni attori il ruolo di genius loci.

Per questo credo che il dibattito intorno all’affermazione del toponimo di Craxi non sia il tentativo di preservare la memoria biografica di un personaggio di rilievo, ma controverso, sia piuttosto la spia di un irrisolto della storia, di un passato che non passa, di un’elaborazione del lutto rinviata. Si è assistito collettivamente alla morte della Repubblica dei partiti, ma nessuno ha voluto organizzare il funerale. Nessuno aveva lacrime da versare, nessuno ha voluto partecipare alla veglia funebre. Tutti sono fuggiti via senza salutare, cercando di dimenticare, mentre il corpo rimaneva lì, imbalsamato. Quello stesso corpo a cui avevano succhiato il sangue.

Non c’è stato un passaggio di regime, non c’è stata una vera chiarificazione tra le forze in campo, non ci sono stati vinti e vincitori. La Repubblica, quella del ’46, era nata dalla lotta, dall’espiazione dei lutti, dalla sconfitta dei fascisti. Il paradosso è che nessuno è stato realmente sconfitto. Certo non è rimasto nulla della cultura politica della prima Repubblica, ma la congiura del silenzio ha accumulato rancore sordo e rabbia esplosiva, due sentimenti che hanno generato la paura di affrontare l’orizzonte. Sono state tagliate le radici al futuro nella vana speranza di nascondere il passato.

Il problema non è la celebrazione del diciassettesimo anniversario della morte di Craxi, il problema sono i venticinque anni trascorsi nel segno di Tangentopoli che non è il confine ultimo del sistema dei partiti ma la porta d’ingresso della seconda Repubblica. Tangentopoli è ancora lì che ci guarda come un virus parassita incollato alle nostre cellule come un elemento genetico della identità nazionale. Senza il passaggio di regime non si sono creati gli anticorpi politici e istituzionali in grado di reagire alla cura antibiotica della magistratura.

Perciò la riabilitazione toponomastica di Craxi non accede il dibattito pubblico sul recente passato ma si riduce alla semplice lacerazione psicologica di chi si sente sconfitto pur avendo vinto e di chi ha vinto pur essendo stato sconfitto. Siamo afflitti dalla melanconia dell’Eden perduto, dalla nostalgia della Repubblica dei partiti; quella Repubblica che ha brillantemente evocato Checco Zalone e che si rinnova ogni domenica con Pippo Baudo in televisione.

È la prepotente voglia di mettere fra parentesi la sbornia berlusconiana, la monotonia prodiana, il tecnicismo di Dini e Monti, la grande coalizione di Letta e il modernismo social di Renzi per tornare all’Italia indebitata e felice; l’Italia della Lira, l’Italia quinta potenza, l’Italia del deficit, l’Italia del welfare universale, l’Italia del secondo miracolo economico, l’Italia delle pensioni d’invalidità, l’Italia del posto fisso, l’Italia della Cassa per il Mezzogiorno, l’Italia con una classe dirigente culturalmente dignitosa; insomma l’Italia pasticciona, corrotta e mafiosa ma estrosa e competitiva.

I ragazzi che oggi hanno 25 anni sono cresciuti in Paese in cui la menzogna è stata la cura. La verità era il pericolo da cui fuggire. E allora eccoci qua proiettati nella prima metà del XXI secolo (persino la bocciatura dell’Italicum può essere letta in tal senso), alla ricerca di un mondo perduto che abbiamo negato e che, alle nuove generazioni, abbiamo insegnato ad odiare. Il tempo scorre, ci vorrebbe una macchina del tempo per tornare al 1992 e mettere in ordine le cose, agguantando la Globalizzazione al momento giusto.

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