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Covid 19

L’allarme degli anestesisti: “Ricoveri raddoppieranno in 7 giorni, ragionevole un nuovo lockdown”

Alessandro Vergallo, presidente dell’Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri (Aaroi), fotografa a Fanpage.it la situazione nei reparti di rianimazione italiani durante la seconda ondata di Covid-19: “Nei prossimi 7 giorni c’è il rischio di un raddoppio del numero dei pazienti in terapia intensiva. Gli effetti dell’ultimo Dpcm non si vedranno prima di due settimane. Cosa non ha funzionato? La perdita di consapevolezza che è avvenuta a partire da fine giugno e quasi fino a tutto settembre sul fatto che il pericolo era cessato e a cui hanno contribuito le dichiarazioni di chi ignorava i nostri allarmi”.
A cura di Ida Artiaco
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Il numero di pazienti in terapia intensiva raddoppierà entro i prossimi sette giorni, ma gli effetti sul sistema sanitario delle ultime misure anti-Covid introdotte con il Dpcm del 25 ottobre non si avranno prima delle prossime 2 settimane. Sono queste le previsioni che fa Alessandro Vergallo, presidente dell'Associazione anestesisti rianimatori ospedalieri (Aaroi), che a Fanpage.it fotografa la situazione attuale, e quella del futuro più immediato, negli ospedali italiani alle prese con la seconda ondata di Coronavirus. Anche per questo, ritiene ragionevole la richiesta di lockdown avanzata nei giorni scorsi dalla FNOMCeO, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici.

Anche lei crede che l'unica soluzione al momento sia quella del blocco totale?

Voglio precisare la nostra posizione. Noi non abbiamo chiesto un lockdown, ma abbiamo valutato la  richiesta della FNOMCeO ragionevole, stante la gravità che la situazione sta assumendo di giorno in giorno. Ci teniamo a precisare che la responsabilità di queste decisioni non può che ricadere sulla politica e chiaramente in parte anche sulla politica di governo del sistema sanitario nazionale in relazione alle risposte che il sistema stesso è in grado di dare. Crediamo che non si possa affrontare questa pandemia semplicemente ricorrendo all'aumento dei posti letto nei reparti di rianimazione. Il numero di pazienti ricoverati per Covid in terapia intensiva è semplicemente un indicatore dell'andamento pandemico, non può essere considerata la soluzione. In primis, perché le risorse sono limitate sia a livello strutturale di posti letto che di personale. Affrontare il problema solo ricorrendo all'aumento dei posti letto ci pare come affrontare il problema a valle e non a monte. Ecco perché giudichiamo le parole di Anelli come ragionevoli in relazione al lockdown. Come sanitari abbiamo l'obbligo di fotografare la situazione reale che abbiamo nelle rianimazioni e fare previsioni del rischio che si corre.

Di che rischio parla? 

Nelle quattro settimane precedenti l'ultimo Dpcm abbiamo assistito al raddoppio del numero dei ricoveri, compresi quelli in terapia intensiva, ogni circa 10 giorni. Significa che ogni 10 giorni nell'ultimo mese sono raddoppiati. È evidente che in assenza di fattori imponderabili, se questo trend si dovesse manifestare, c'è il rischio che da qua a 7 giorni il numero dei pazienti anche in rianimazione sarà raddoppiato rispetto a quattro giorni fa con l'emanazione del Dpcm, i cui risultati sono comunque ancora da valutare. Non abbiamo la certezza ma il rischio che tra una settimana i  numeri saranno doppi rispetto a quattro giorni fa è reale. Quanto agli effetti dell'ultimo provvedimento del governo, se ce ne saranno, e noi crediamo che ci saranno, sono effetti che sul piano dei ricoveri si verificheranno non prima delle prossime 2 settimane, perché l'esperienza della prima ondata ci ha insegnato che tra il contagio avvenuto e il manifestarsi dei sintomi gravi che portano al ricovero non intercorrono meno di 15 giorni almeno. Questi sono gli orizzonti temporali con cui occorre analizzare la situazione.

Cosa, secondo lei, non ha funzionato?

Non ha funzionato in primis la perdita di consapevolezza che è avvenuta a partire da fine giugno e quasi fino a tutto settembre sul fatto che il rischio non era cessato. A ciò non hanno contribuito favorevolmente tutte le dichiarazioni a cui abbiamo assistito provenienti anche dal mondo cosiddetto scientifico, vero o presunto tale, che hanno a più riprese dichiarato che il pericolo era cessato e non sussistevano più le condizioni per pensare ad una seconda ondata. Non dimentichiamoci che fino a pochi giorni addietro c'era chi continuava a sostenere, a fronte del nostro allarme che ci trovavamo già sul piede di una nuova ondata con andamento esponenziale, che non era così e che quei casi in aumento che osservavamo erano semplicemente la risacca della prima ondata. Questo non ha favorito la consapevolezza della popolazione di un rischio che nei mesi autunnali e invernali si sarebbe potuto ripresentare così come sta avvenendo.

È d'accordo con la divisione in aree dell'Italia?

Noi riteniamo che nei criteri che sono stati adottati con l'ultimo Dpcm, che tuttavia non conosciamo nei dettagli e che anzi ci piacerebbe fossero resi pubblici, per come ci sono stati presentati, vanno considerati alcuni fattori da noi ritenuti importanti, non solo riconducibili al numero di contagiati, al numero di pazienti sintomatici e a quelli dei ricoverati, ma devono essere riconducibili anche alle capacità dei singoli sistemi sanitari regionali di poter impattare questa nuova ondata. Sotto il profilo della multifattorialità che ha portato alla suddivisione in aree non abbiamo nulla da criticare. Se conoscessimo qualche dettaglio in più potremmo anche capirli meglio. Quello che ci dispiace è che purtroppo sono trascorsi dei mesi, quelli estivi, in cui si sarebbero potute adottare misure di contenimento più localizzate rispetto a quelle regionali, parlo quindi di misure sostanzialmente di livello provinciale, che tuttavia ci rendiamo conto che in questa fase in cui l'emergenza è già re-iniziata è difficilissimo poter porre in opera. Non essendo stato fatto è evidente che bisogna pensare ad un livello superiore e cioè a quello regionale sperando di non dover arrivare a misure uniformi molto più restrittive sull'intero territorio nazionale.

Quali regioni sono più a rischio?

Ci sono due fattori da considerare per capire quali sono le regioni più a rischio non oggi ma in senso prospettico. Il primo, tolte le capacità dei singoli sistemi regionali, è l'incidenza ogni 100mila abitanti nelle ultime settimane dei soggetti positivi, il secondo è l'incremento percentuale rispetto alla settimana precedente. La Campania, ad esempio, si trova certamente in una zona alta rispetto all'intersezione di questi due criteri della gravità dell'andamento pandemico. Per la seconda volta però, ovunque sul territorio nazionale, a distanza di nove mesi sostanzialmente è la sola medicina ospedaliera chiamata a curare questi pazienti laddove invece nei lunghi mesi che sono passati nessuno ci ha fornito elementi tali da poter confidare in un ruolo centrale della medicina extra ospedaliera almeno per quanto riguarda i pazienti paucisintomatici. È evidente che se la cittadinanza non ha un interlocutore sanitario di riferimento che non sia l'ospedale l'unica strada che rimane è rivolgersi al pronto soccorso.

Invoca quindi un maggior coinvolgimento dei medici del territorio?

Si, il nostro vuole essere un appello. Non intendiamo mettere sotto accusa i colleghi della medicina generale, ma mettiamo sotto accusa il sistema della medicina generale così come è stato creato decenni fa che impedisce un utilizzo delle risorse sulla base di ordine di servizio uniformi su scala nazionale e applicabili da tutti.  Si valuti ad esempio il caso dei tamponi. A nostro avvisto si tratta di un pannicello caldo sulla reale utilità ma anche questo viene applicato in maniera marginale.

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