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In Italia 50 femminicidi, Non Una Di Meno: “Non è emergenza, questa strage è figlia del patriarcato”

Dall’inizio dell’anno in Italia sono stati commessi almeno 50 femminicidi. Una strage che però, per il movimento Non Una Di Meno, sarebbe sbagliato definire un’emergenza: “La violenza maschile è espressione del patriarcato. Attraversa tutti gli ambiti delle nostre vite. La famiglia, le relazioni, la sfera economica e quella politica e istituzionale, sociale e culturale. È violenza fisica, sessuale, economica e psicologica”.
A cura di Davide Falcioni
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Nel 2021 in Italia sono stati commessi almeno 50 femminicidi, nove dei quali solo nell'ultimo mese. Una strage che si consuma prevalentemente tra le mura domestiche e i cui responsabili sono quasi sempre mariti, fidanzati ed ex determinati ad annientare e subordinare le donne in ogni modo, spesso arrivando ad ucciderle. Parlare di emergenza però sarebbe un errore e a dimostrarlo, ancora una volta, sono i numeri: nonostante l’andamento degli omicidi in Italia sia da anni in calo, i femminicidi non diminuiscono affatto e il loro numero negli anni è rimasto sostanzialmente stabile. Ne abbiamo parlato con il collettivo milanese di Non Una Di Meno, movimento femminista italiano ispirato allo storico NiUnaMenos messicano ed argentino e da anni impegnato contro la violenza sulle donne e la discriminazione di genere in ogni sua forma: a casa, sul lavoro, in politica ed in ogni altro contesto.

 I responsabili dei femminicidi sono sempre uomini; per lo più mariti, compagni ed ex. Perché secondo voi la cultura patriarcale è la diretta responsabile della violenza di genere"?
La violenza maschile contro le donne e di genere è sistemica: attraversa tutti gli ambiti delle nostre vite, si articola, autoalimenta e riverbera senza sosta dalla sfera familiare e delle relazioni, a quella economica, da quella politica e istituzionale, a quella sociale e culturale, nelle sue diverse forme e sfaccettature – come violenza fisica, sessuale, economica e psicologica. Non si tratta, dunque, di un problema emergenziale, né di una questione geograficamente o culturalmente determinata. La violenza maschile è espressione diretta dell’oppressione che risponde al nome di patriarcato, sistema di potere funzionale al mantenimento dello status quo in cui donne e persone LGBTQIAP+ vengono considerate subalterne.

Cos'è una relazione abusante e come riconoscerla

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Ci sono – in una relazione – comportamenti ed episodi che devono far alzare la soglia di attenzione e possono aiutare le donne a difendersi? E quanto è importante non sottovalutare le violenze psicologiche?
I centri anti violenza ci insegnano che esiste un ciclo della violenza.
Fase 1: Tensione crescente ed escalation delle strategie  violente;
Fase 2: Aggressione, esplosione improvvisa, da parte dell'autore, paura, tristezza e umiliazione per chi la subisce;
Fase 3: Negazione, trasferimento della responsabilità dall'autore, colpevolizzazione della vittima;
Fase 4: Luna di miele, speranza e occultamento delle violenze subite, prove d'amore e promesse da parte del maltrattante.
Dopo la cosiddetta "Luna di miele" il ciclo della violenza riprende da capo e ciascuna volta lo fa in modo sempre più violento. Alcuni esempi concreti: la umilia urlandole contro, la critica costantemente e sminuisce i suoi traguardi, la incolpa di renderlo violento ("tu mi provochi"), è eccessivamente geloso e controlla i suoi spostamenti, controlla il conto in banca e la spinge a lasciare il lavoro o il percorso di studi, le impedisce/scoraggia di vedere amici o familiari, minaccia violenza fisica, utilizza i figli come ricatto, utilizza i documenti (permesso di soggiorno)/il rischio di rimpatrio come ricatto.

Nei vostri documenti parlate di "relazione abusante": a cosa vi riferite? Quando, una relazione, lo è?
Ogni tipo di violenza fisica, psicologica, economica e sessuale che avviene all’interno di una relazione affettiva, o di tale tipo, presente o passata. Viene agita prevalentemente dagli uomini sulle donne. Sono comprese diverse azioni e comportamenti che mirano all’affermazione del potere e del controllo dell’altra persona, del suo agire e del suo pensare.

Cos’è la rape culture, o cultura dello stupro, e come si manifesta nella vita quotidiana delle donne?
La cultura dello stupro è ben rappresentabile da una piramide. Alla base di questa piramide ci sono attitudini che tutte le persone conoscono: battute a sfondo sessuale non richieste, molestie mascherate da avances sul lavoro o per strada, volgarità camuffate da apprezzamenti, la sessualizzazione dei corpi… Man mano che si arriva alla cima della piramide troviamo azioni che vengono più comunemente identificate come atti violenti: si parte dalle molestie fisiche e verbali, sessuali, alle limitazioni della libertà, gelosia possessiva, controllo e si arriva alla violenza psicologica, fisica, allo stupro e infine al femminicidio e all'uccisione di genere. La piramide rende visibile che atti come stupro e femminicidio sono legittimati da un clima culturale che ancora oggi permette di speculare sul corpo delle donne, ne consente l'appropriazione e trasforma le nostre vite e corpi in oggetti a disposizione di occhi, parole e mani non richiesti.

Gli errori dei media nel raccontare i femminicidi

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Termini come  "amore", "raptus", "follia", "gelosia", "passione" vengono spesso accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento delle donne. Come NON andrebbe mai raccontato un femminicidio sui media?
I media svolgono un ruolo strategico nell’alimentare o contrastare la violenza maschile contro le donne e spesso interagiscono anche con i meccanismi giudiziari, come denunciato da donne resistenti alla violenza che sono state ri-vittimizzate. Occorre evitare di presentare la violenza come emergenza o di trattare i fatti di cronaca come episodi privi di legami fra loro, dovuti a circostanze peculiari e fattori individuali.
La violenza non è amore: occorre  smettere di parlare di raptus, gelosia, delitto passionale.
La violenza è trasversale: è importante evitare di concentrarsi sulle forme ritenute più “notiziabili”.
La violenza non riguarda gli altri: evitiamo di esorcizzarla raccontandola come agita da uomini che appartengono ad altre culture o ad ambienti degradati.
La violenza non è spettacolo: è necessario, evitare di normalizzarla, estetizzarla o feticizzarla.
Le donne non sono vittime passive, predestinate, isolate.
Chi subisce violenza di genere non ne è mai responsabile.
La violenza non divide tra "donne per bene" e "donne per male".
Occorre evitare la patologizzazione dell’uomo violento

Due anni fa è stato introdotto il "codice rosso"; negli intenti del legislatore dovrebbe contribuire a difendere le donne, ma i femminicidi e le violenze non sono diminuiti. Voi avete criticato questa legge. Per quale ragione?
Pretendiamo che nell’elaborazione di qualsiasi iniziativa di contrasto a quest’ultima vengano coinvolti attivamente i CAV laici e femministi. Riteniamo infatti inadeguati e dannosi interventi di stampo esclusivamente assistenziale, emergenziale e repressivo, che non tengono conto dell’analisi femminista della violenza come fenomeno strutturale. Per questo esprimiamo contrarietà ai cosiddetti "Codice Rosa" e "Codice Rosso", e ne chiediamo la totale riorganizzazione al di fuori delle logiche securitarie che impongono percorsi obbligati, lesivi dell’autonomia e della libertà di scelta delle donne.

Siete favorevoli all’inasprimento delle pene verso i responsabili di maltrattamenti e femminicidi? Secondo voi possono essere rieducati e se sì, come?
Per creare spazi e tempi di vita sani e sicuri non servono la criminalizzazione, la repressione, i DASPO: è necessario recuperare quartieri abbandonati, aumentare i luoghi autonomi gestiti da donne, riprogettare e risignificare i territori urbani partendo dalle esigenze delle donne, costruire spazi liberati per tutt@. Inoltre, Il nostro femminismo non è compatibile con la struttura carceraria, con la punizione, il controllo, il dominio sui corpi intesi come "cura". Il carcere produce altro carcere, generando marginalità mentre dichiara di volere provvedere ad un re-inserimento. Il giustizialismo è frutto di una cultura patriarcale che genera carnefici e vittime ergendosi a tutore dell’uno e dell'altro. Proprio perché sappiamo che la violenza è strutturale, sappiamo anche che non si può affidare alla repressione il compito di combatterla.

NUDM: "Non basta denunciare a polizia e carabinieri: bisogna potenziare i centri antiviolenza"

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Tra le recenti vittime c’è Rita Amenze, uccisa dal marito a Noventa Vicentina: il giorno prima di essere uccisa aveva raccontato ai carabinieri le violenze subite, ma non era stato attivato il "codice rosso" e la sua segnalazione era stata sottovalutata. Spesso le denunce alle forze dell’ordine vengono ignorate; spesso proprio quelle denunce scatenano reazioni violente. Come ve lo spiegate?
Chiariamo una cosa subito: non entreremo mai nel merito della decisione di una singola rispetto alla denuncia. Ma abbiamo imparato che "me cuidan mis amigas", ( mi tutelano le mie amiche e sorelle) non è solo uno slogan ma una realtà a cui ci riferiamo. Non è sufficiente affidarsi alle cosiddette forze dell'ordine, perché lo sguardo è spesso il medesimo, ed è una visione che sminuisce la violenza di genere e maschile contro le donne e che mette al centro il violento e non chi sopravvive. Una delle facce della violenza è la complicità tossica, il trovare attenuanti, e questo avviene proprio perché nessuno è davvero esente, tanto meno le forze dell'ordine e l'ambiente culturale in cui si formano.

Che ruolo hanno i centri antiviolenza?
Definiamo Centri Antiviolenza (CAV) tutti i centri, gli sportelli, le case rifugio, le case di semiautonomia, gli spazi occupati e autogestiti delle donne. Quelli a cui facciamo riferimento sono luoghi di elaborazione politica, autonomi, laici e femministi al cui interno operano esclusivamente donne e il cui obiettivo principale è attivare processi di trasformazione culturale e politica e intervenire sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile e di genere sulle donne (con donne si intende donne cisgender, transessuali e lesbiche). Nei centri antiviolenza le donne trovano ascolto, accoglienza, ospitalità; accompagnamento nella ri-acquisizione dell’autostima; attivazione delle risorse interne; sostegno legale; sostegno psicologico; sostegno alla genitorialità; sostegno all’autonomia economica (formazione/lavoro/casa). I Centri Antiviolenza garantiscono la riservatezza, la segretezza, l’anonimato e la gratuità. Il rifiuto della mediazione familiare, ossia l’intervento volto alla risoluzione del conflitto relazionale, dove si agisce violenza su donne e figl@ (così come previsto anche dalla Convenzione di Istanbul), è uno dei tratti distintivi del nostro agire.

I CAV sono adeguatamente sostenuti dalle istituzioni?
La pluralità di azioni necessarie per una concreta ed efficace lotta alla violenza maschile sulle donne richiede l’impegno di risorse e finanziamenti appropriati e finalizzati al vantaggio delle donne e alla valorizzazione e sostegno dei Centri Antiviolenza. Per questo pretendiamo: • Risorse e finanziamenti adeguati economicamente e rispondenti ai bisogni individuati dai CAV. I finanziamenti pubblici devono prevedere convenzioni o contratti a tempo indeterminato che coprano le spese di gestione annuali. Il contratto di finanziamento dovrebbe coprire tutti i servizi forniti, e non essere suddiviso in diverse parti; • Abolizione del vincolo del 30% dei finanziamenti per l’apertura di nuovi CAV (art. 5Bis L.119), ad oggi applicato senza aver prima monitorato l’effettiva necessità di quelli già esistenti, che chiudono per mancanza di risorse; • La verifica da parte del Dipartimento Pari Opportunità (DPO) delle spese pregresse e la filiera economica che i finanziamenti hanno seguito negli scorsi anni; • Che la programmazione degli enti locali tenga conto di un piano di intervento triennale, al fine di garantire continuità ed efficacia ai progetti e alle azioni di contrasto alla violenza; • Risorse allocate al DPO e non lasciate alla responsabilità dei singoli ministeri.

Reddito di autodeterminazione per liberarsi dalle violenze domestiche

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Una donna che denuncia abusi spesso è costretta a vivere con il responsabile di quella violenza. Quanto conta l’indipendenza economica? Cos'è il reddito di autodeterminazione che proponete?
Esiste un nesso stretto tra la ristrutturazione capitalistica e neoliberale in atto e la violenza di genere che, in questo ambito, viene perpetuata attraverso i dispositivi di nuova segmentazione e frammentazione del lavoro, di esclusione, disoccupazione forzata, sfruttamento e impoverimento, attraverso la crescente dismissione del welfare in nome del risanamento del debito. Questi fenomeni riguardano tutt@, ma si abbattono con maggiore virulenza sulle donne, là dove, nella crisi, riemerge con rinnovata forza un preciso modello di divisione sessuale del lavoro: quello patriarcale, che assegna "naturalmente" alle donne le attività riproduttive e di cura, costringendole nuovamente tra le mura domestiche o addossando sulle loro spalle il doppio carico di lavoro. Combattere la violenza a partire dalla specificità di questi temi vuol dire porsi il problema in termini di prevenzione, individuare ex ante strumenti e misure capaci di garantire materialmente l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, sottraendole in forma preliminare alla potenziale spirale di violenza data dalla dipendenza economica, dallo sfruttamento, dalla precarietà e dall’assenza di welfare e servizi. Per questo pretendiamo un reddito che noi definiamo di autodeterminazione, incondizionato e universale, slegato dalla prestazione lavorativa, dalla cittadinanza e dalle condizioni di soggiorno. In tal senso si ritengono assolutamente inadeguate le misure attualmente in atto, perché lontano dai principi dell’universalismo, dell’individualità e dell’autodeterminazione.

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