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Covid 19

Covid-19, Vespignani: “Fuori da emergenza, ma politica raddoppi gli sforzi e non nasconda i dati “

L’epidemiologo Alessandro Vespignani: “Siamo sinceri: minimizzare il numero dei decessi non è mai stato un obiettivo in Occidente. Lo scopo è sempre stato quello di salvare la tenuta degli ospedali e quella dell’economia”.
Intervista a Prof. Alessandro Vespignani
Epidemiologo
A cura di Davide Falcioni
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"Lo scopo dei Paesi occidentali non è mai stato quello di minimizzare il numero dei morti di Covid, bensì salvaguardare la tenuta delle strutture sanitarie e quella dei sistemi economici. Ora la politica ha già dimenticato il trauma degli ultimi tre anni". A dirlo, intervistato da Fanpage.it, il professor Alessandro Vespignani, 57 anni, tra i massimi esperti mondiali di modelli epidemiologici e scienza delle previsioni.

Laureato in Fisica a Roma, lo scienziato ha lavorato in università e centri di ricerca a Yale, Leida, Trieste, Parigi, Indianapolis e Torino. Ci risponde da Boston, dove è professore alla Northeastern University di cui dirige il Network Science Institute. Con il suo team di lavoro ha contribuito alla gestione internazionale delle epidemie di Ebola, Sars e Zika. Dal 2020 ha collaborato con l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il CDC, la Casa Bianca e altre istituzioni nazionali e internazionali nella risposta al Coronavirus.

Un curriculum di livello assoluto che fa di Vespignani uno degli scienziati più accreditati a parlare di quanto accaduto negli ultimi tre anni. Un bilancio che l'epidemiologo ha tracciato anche nel suo ultimo libro, "I piani del nemico" (Rizzoli).

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Professore, qual è stato il suo lavoro, e quello dei suoi collaboratori, in questi ultimi tre anni?

Abbiamo fatto cose molto diverse perché il tipo di supporto che abbiamo dovuto offrire è mutato al mutare delle fasi pandemiche. Nel periodo iniziale ci siamo concentrati in quella che noi chiamiamo "consapevolezza situazionale".

Di cosa si tratta?

Provo a spiegarlo: abbiamo dovuto studiare tutto ciò che non si vedeva, la parte sommersa dell'iceberg che avevamo davanti. Un paio di esempi: se sapevamo che in Cina c'erano 30 casi di polmonite atipica dovevamo cercare di capire cosa stesse accadendo veramente lì. Oppure quando a febbraio del 2020 la situazione sembrava migliorare il nostro compito è stato provare a verificare se era vero: scoprimmo ben presto che non lo era affatto e che il virus si era già diffuso in tutto il mondo.

A chi avete fornito la vostra consulenza?

Abbiamo collaborato con l'OMS soprattutto per la parte di intelligence epidemiologica. Poi con i Centers for Disease Control statunitensi, con vari Stati americani e tante agenzie che si occupavano internazionalmente della risposta alla pandemia. Ancora adesso il nostro lavoro è con i CDC e con tutti coloro che continuano ad occuparsi di Covid e salute pubblica negli USA.

Come siete riusciti a mappare la pandemia con dai e informazioni spesso carenti o di bassa qualità?

Parte del nostro lavoro è stato quello di riempire i vuoti di dati che ci sono stati soprattutto all'inizio. Quando dalla Cina venivano notificati una manciata di contagi noi dovevamo verificare se quei numeri, estremamente bassi, fossero veri. L'abbiamo fatto triangolando informazioni di tipo diverso, ad esempio analizzando i dati sul traffico aereo dalla Cina e comparandoli con quelli delle infezioni nei Paesi di destinazione dei voli. In questo modo siamo riusciti ad avere una stima più realistica della magnitudine dell'epidemia in Cina e abbiamo capito che le infezioni erano svariane decine di migliaia, molte più di quelle comunicate dalle istituzioni. Il nostro lavoro consiste anche nel cercare di leggere quello che accade attraverso dati qualitativamente scadenti o forniti in ritardo. Il mondo crede che questa pandemia sia stata gestita come nei film di Hollywood, con dei bellissimi centri di comando e controllo super efficienti. Ecco, niente di più sbagliato.

Come giudica la comunicazione degli scienziati e dei media nei mesi più acuti della pandemia?

Ho dedicato un intero capitolo del libro a questo aspetto e l'ho intitolato "(dis)-informazione". In molti Paesi europei, Italia compresa, l'informazione scientifica è purtroppo relegata agli angoli, di conseguenza sui media era difficile leggere articoli scritti da cronisti davvero competenti. Prendersela con i giornalisti però sarebbe fin troppo facile. In realtà gli stessi scienziati hanno comunicato in modo estremamente inappropriato, senza rispettare il confine tra le loro reali competenze e le opinioni personali. Io sono un epidemiologo, non spiegherei mai all'opinione pubblica come si curano i pazienti dal punto di vista clinico. Questa accortezza però non l'abbiamo avuta in molti: troppi medici si sono improvvisati epidemiologi ipotizzando le traiettorie future dell'epidemia. Ciò ha generato una cacofonia di voci che ha indotto molti cittadini a credere che neppure gli scienziati ci stessero capendo molto. In realtà non era vero.

Nel suo ultimo libro lei, tra l’altro, tratta del rapporto tra scienza e politica. Ci racconta quale è stato? La politica ha sempre "seguito la scienza", come abbiamo sentito dire decine di volte?

No. Le istituzioni si sono nascoste innumerevoli volte dietro l'affermazione "ce l'ha detto la scienza". Non è così: noi scienziati abbiamo fornito degli scenari futuri e delle possibili mappe d'intervento, ma le decisioni sono sempre state politiche e sono state dovute a tanti altri fattori, ad esempio ad aspetti economici o sociali. Anche qui poi c'è stato un grosso problema comunicativo, visto che i politici – il più delle volte molto impreparati – non sempre hanno spiegato la ratio delle loro decisioni usando, al solito, lo scaricabarile del "ce l'ha detto la scienza".

Come giudica l’approccio adottato dall’Occidente nella lotta al virus? Considerato il numero dei morti in Paesi dai sistemi sanitari avanzati, su un ipotetico piatto della bilancia la libertà individuale ha finito per sovrastare il diritto alla salute?

Nei Paesi occidentali si è tentato di navigare nell'epidemia cercando da una parte di tenere in piedi i sistemi sanitari, e dall'altra di non distruggere completamente il tessuto economico e sociale. Ma dobbiamo essere sinceri: minimizzare il numero dei decessi non è mai stato un obiettivo, checché se ne dica. Lo scopo è sempre stato quello di salvare la tenuta degli ospedali.  Se vuoi davvero abbattere il numero dei morti metti in campo strategie draconiane come è stato fatto in altri Paesi, ad esempio quelli che hanno perseguito il "Covid zero". Cito i miei colleghi Ira Longini e Betz Halloran, che in tempi non sospetti avevano pronosticato che "la società si sarebbe abituata a un numero maggiore di decessi e di ospedalizzazioni. La pandemia sarebbe stata vista sotto le lenti della politica, dei bisogni sociali, economici e psicologici degli individui. A un certo punto la stanchezza avrebbe fissato una soglia accettabile di morte, dolore e malattia al di sotto della quale la pandemia sarebbe psicologicamente finita".

Qual è la sua opinione sulla strategia Covid Zero?

Quello del Covid Zero è un modello estremamente difficile da attuare perché si basa su una chiusura estrema dei Paesi. Penso sia stato introdotto e gestito con successo da alcune nazioni – non a caso insulari – come l'Australia e la Nuova Zelanda. Il fatto che siano isole ovviamente non è un caso. Anche Singapore, Giappone e Corea del Sud hanno attuato delle declinazioni di Covid Zero con politiche molto più restrittive di quelle che abbiamo adottato noi occidentali ed hanno avuto successo perché il loro fine è sempre stato chiaro: minimizzare il più possibile il numero dei morti e fare campagne di vaccinazione davvero incisive. Solo successivamente hanno cominciato a riaprire.

Negli ultimi mesi si discute molto del modello cinese Covid zero. Cosa ne pensa?

La Cina si è messa nell'angolo a causa di una serie di decisioni strategiche sbagliate. La prima è stata una campagna di vaccinazione disastrosa che ha puntato sui giovani ma tralasciato gli over 60; la seconda una politica di nazionalismo vaccinale con un vaccino che funziona molto meno dei nostri. Ora il risultato è che i cinesi sono nei guai: devono fare i conti con una variante di Sars-CoV-2 molto trasmissibile come Omicron, una popolazione vaccinata "male" e il rifiuto – per ragioni politiche – di acquisire i vaccini occidentali. In più ci sono una popolazione sfiancata dal Covid Zero e un governo che non può eliminare tutte le restrizioni, pena trovarsi di nuovo in emergenza.

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Quale scenario ci attende più probabilmente  nei prossimi mesi? Siamo ormai fuori pericolo, o rischiamo nuove recrudescenze?

Siamo usciti da una fase emergenziale ma ci troviamo ancora dentro una pandemia che comporta un carico importante per gli ospedali. Mentre penso che per i cittadini sia comprensibile immaginare di essere usciti dall'emergenza, per le istituzioni pubbliche e i sistemi sanitari il discorso cambia. Essi dovrebbero raddoppiare gli sforzi, non mollare la presa. Agli scienziati andrebbero forniti dati migliori, è necessario un sequenziamento genomico costante per capire come accade con le varianti. Il quadro che ci si aspetta quindi è che anche in futuro ci saranno alti e bassi di contagi, dipendenti essenzialmente dai tempi di waning del vaccino, cioè dalla durata della protezione, e dalla capacità evasiva delle prossime mutazioni. Tuttavia rimane un'ultima incognita alla quale nessuno di noi può rispondere: il Sars-Cov-2 potrebbe sempre generare una variante più problematica. È questa la ragione per cui non va assolutamente abbassata la guardia e penso non sia molto saggio ridurre la quantità di dati a disposizione della comunità scientifica, come purtroppo sta accadendo.

Il Covid ci ha preparati meglio alle future pandemie?

Ci sono alcuni elementi di ottimismo: abbiamo imparato molto in questi tre anni e questo bagaglio di esperienze ci servirà in futuro. Tuttavia sono anche molto pessimista sulla risposta di politica ed istituzioni, che stanno dimenticando troppo in fretta l'enorme trauma che abbiamo vissuto. Non ci sono dubbi che un'altra pandemia ci sarà, anche se non sappiamo ancora quando. È per questo che dovremmo prepararci molto meglio di quanto stiamo facendo.

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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