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Addio a Michel du Cille, fotoreporter vincitore di due premi Pulitzer

Il grande fotoreporter si era recato in Liberia per documentare l’epidemia di ebola. E’ morto d’infarto.
A cura di Davide Falcioni
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Addio a Michel Du Cille, fotoreporter del Washington Post, vincitore nella sua carriera di ben tre premi Pulitzer. Il fotografo è morto d'infarto in Liberia mentre stava realizzando il suo ultimo lavoro sull'epidemia di ebola. Du Cille, 58 anni, era arrivato nel paese africano martedì e intendeva rimanerci per alcune settimane per documentare l'epidemia che ha causato migliaia di morti nel paese. Il Washington Post ha omaggiato il reporter ricordandolo per la sua capacità di catturare "immagini delle lotte e dei trionfi dell'uomo". Secondo il grande giornale statunitense Du Cille era "uno dei più bravi fotografi al mondo".

A provarlo anche i tre Premi Pulitzer conquistati in carriera: il primo nel 1986, il secondo nel 1988, per lavori realizzati con il Miami Herald sull'eruzione del vulcano Nevado del Ruiz e sul dramma del crack a Miami. Nel 1989 passò al Washington Post e qui vinse il premio Pulitzer nel 2008 con i colleghi Dana Priest e Anne Hull per una serie di foto sulla cura dei veterani di guerra negli Stati Uniti. Il caporedattore del Post Marti Baron ha dichiarato: "Siamo distrutti, abbiamo perso un collega amato e uno dei più grandi fotografi al mondo".

"Sono stato sempre orgoglioso nei miei oltre 40 anni di carriera come fotogiornalista dell'offrire dignità ai soggetti che fotografo, specialmente quelli che sono malati o in difficoltà di fronte a una fotocamera". Così scriveva Du Cille nei giorni scorsi, commentando il suo lavoro sull'emergenza ebola. "Il mio recente lavoro in Liberia è stata una sfida per me. Il rispetto è una delle ultime e uniche cose che il mondo può offrire a un persona che è morta o sta per morire. Ma la fotocamera stessa a volte sembra un tradimento di quella dignità che si spera di offrire (…) Come si dà dignità all'immagine di una donna che è morta e giace a terra, ignorata, non coperta e sola mentre la gente passa, o solo guarda da lontano? Ma credo che il mondo debba vedere gli effetti orribili e disumani dell'Ebola. La storia va raccontata, così andiamo in giro con dolcezza e evitando intrusioni estreme (…) Raccontare Ebola vuol dire essere vicini, a distanza di scatto, con la devastazione del virus. Questo lavoro mi ha portato faccia a faccia con un altro aspetto dis-umanizzante del virus: la paura. Sapendo che un pericolo silenzioso si nasconde in una persona infetta da Ebola, un semplice tocco può farci ammalare. In Monrovia, dove è passato due settimane, la paura è sempre presente. Tra la gente, e tra i fotografi".

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