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Abortisce due gemelli al 5° mese e muore: sette medici a processo per concorso in omicidio colposo

Valentina era deceduta il 16 ottobre 2016 all’età di 32 anni, poco dopo aver abortito due gemelli alla diciannovesima settimana. Il reato ipotizzato è concorso in omicidio colposo plurimo. Nessun riferimento alla presunta obiezione di coscienza di uno dei medici.
A cura di Biagio Chiariello
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Sette medici del reparto di ginecologia e ostetricia dell'ospedale Cannizzaro di Catania sono stati rinviati a giudizio per la morte di Valentina Milluzzo. Devono rispondere di concorso in omicidio colposo per la tragedia avvenuta occorsa alla 32enne di Palagonia, deceduta il 15 ottobre 2016 poche ore dopo i due gemelli che da cinque mesi portava in grembo. Nell'inchiesta non si contesta il fatto che i medici siano obiettori di coscienza. La prima udienza del processo si terrà il 3 luglio del 2019 davanti alla terza sezione del Tribunale di Catania.

Il calvario di Valentina era iniziato la mattina del 29 settembre 2016. La ragazza era stata ricoverata al Cannizzaro per una presunta dilatazione anticipata dell'utero. Il primo aborto spontaneo si verifica la notte del 14 ottobre, alle 23.30. Il secondo all'1.40 di domenica. La 32enne si spegne qualche ora dopo, nel pomeriggio del 15 ottobre. Era stata trasferita d'urgenza reparto di Rianimazione del Cannizzaro. Secondo quanto riferito dai medici, alla base del decesso ci sarebbe stata una “sepsi con crisi emorragica dovuta a un'infezione”. Particolare che, secondo i magistrati titolari dell'inchiesta, i pm FabioSaponara e Martina Bonfiglio, non sarebbe stato adeguatamente riconosciuto dall'equipe medica che aveva in cura la paziente. A questo sarebbe collegata una seconda presunta omissione degli indagati, ovvero la mancata raccolta dei campioni per cercare di ridurre la setticemia.

La Procura contesta ai medici “colpa professionale” per “imprudenza, negligenza ed imperizia”. In particolare “nella mancata attuazione di una terapia antibiotica adeguata” sia il 14 e il 15 ottobre, nel “mancato tempestivo riconoscimento della sepsi in atto”, nella “mancata raccolta di campioni per esami microbiologici”, nella “mancata tempestiva rimozione della fonte dell’infezione: i feti e le placente" e la “mancata somministrazione di emazie durante l’intervento”.

Ci sarebbe poi la questione legata all’obiezione di coscienza. I familiari della 32enne avevano infatti inserito nell'esposto presentato ai carabinieri e una frase che sarebbe stata pronunciata da uno dei camici bianchi e che il padre della donna giura di avere sentito: “Sono un obiettore. Fino a che è vivo io non intervengo”. Nel rinvio a giudizio non compare comunque nessuna accusa in tal senso.

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