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Via D’Amelio, la strage in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino

Un boato squassa la strada, le auto prendono fuoco. Tutto intorno è buio. Il 19 luglio 1992, davanti al civico 21 in via Mariano D’Amelio, una 126 carica di esplosivo azionato a distanza, salta in aria causando una strage. Muoiono nell’attentato il giudice antimafia Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta.
A cura di Angela Marino
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1992. È l'anno in cui il socialista Mario Chiesa veniva arrestato a Milano per aver intascato una tangente di 7 milioni di lire, dando il via all'operazione del pool Mani pulite di Antonio di Pietro; a Palermo l'ex sindaco e leader della corrente andreottiana della DC, Salvo Lima veniva ucciso da Cosa nostra. Al cinema davano il Silenzio degli innocenti.

La strage di via d'Amelio

Tutti i palermitani sono andati al mare quella domenica 19 luglio, in via Mariano D'Amelio, sono rimasti solo i residenti anziani, quelli che da casa non si muovono mai. Tra questi c'è la signora Maria Pia, l'anziana madre del giudice Paolo Borsellino, a cui il magistrato fa visita ogni volta che può per assisterla, ma non solo. Passare del tempo con la propria madre, guardare il suo viso segnato dalla vita e ritrovarvi tutta la propria infanzia lo fa sentire al sicuro. È un modo per allontanare quel pensiero di morte costante che dall'Attentatuni di Capaci non lo aveva lasciato un solo istante.

Uno scenario sospetto

Nonostante siano passate le 16, il sole è ancora bruciante in via D'Amelio e il carabiniere, Antonio Vullo riesce a stento a tenere le mani sul volante dell'auto, mentre parcheggia. Era arrivato insieme agli altri agenti della scorta nella tranquilla strada delimitata dalle alte palazzine, ma poi, di fronte a quella insolita concentrazione di macchine parcheggiate, aveva deciso di tornare indietro e posizionare meglio la propria. Avvia la retromarcia. Mentre è voltato con il viso rivolto al lunotto posteriore viene investito da una vampa di calore infernale. Un boato squassa la strada, l'auto prende fuoco. Tutto intorno è buio.

Il boato

Sono le 16 e 59, 90 chilogrammi di esplosivo telecomandati a distanza nascosti in una Fiat 126 rubata, sono deflagrati facendo tremare la terra e sfondando porte e finestre al civico 21. La stretta strada residenziale brucia, sull'asfalto nero ci sono frammenti di corpi mutilati, c'è ancora qualcuno, ferito, che urla aiuto, i proiettili delle armi di ordinanza esplodono da soli per il caldo fortissimo.

Quando i telegiornali annunciano la morte del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina ed Emanuela Loi (la prima donna a scortare un magistrato) è come se dessero la notizia dell'esecuzione di una condanna morte. Quella di via d'Amelio, per gli italiani che si sintonizzano davanti alla tv, è la notizia di una strage annunciata. Quante volte si è detto nei talk show televisivi e scritto sui giornali che il prossimo obiettivo, dopo il massacro del giudice Giovanni Falcone, era il collega del pool antimafia, Paolo Borsellino? In segno di protesta contro chi non ha protetto suo marito, Agnese Borsellino rifiuta i funerali di Stato.

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Sospetti

Ambigua e carica di domande oscure è da subito la storia della strage di via d'Amelio. Il giorno dopo l'attentato arriva alla Questura di Palermo una telefonata anonima che segnala la presenza, sul luogo della strage, di un edificio in costruzione di proprietà della famiglia Graziano, legata al clan siciliano dei Madonia. Da quello stabile, chiunque avrebbe avuto un punto di osservazione chiarissimo del luogo della deflagrazione. Altra circostanza strana è la presenza, nello stesso stabile al civico 21, dove viveva l'anziana signora Borsellino, di Salvatore Vitale, fedelissimo dei fratelli Graviano. Nonostante la segnalazione il palazzo finisce fuori dalle indagini.

Le indagini

Il governo istituisce un Gruppo investigativo ‘Falcone-Borsellino', incaricato di trovare i responsabili degli attentati di cui erano rimasti vittima i due magistrati. Il pool guidato dal capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera arriva in tempi record, nel settembre successivo, all'arresto dei pregiudicati legati alla criminalità organizzata della zona della Guadagna di Palermo, Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. Quest'ultimo si autoaccusa chiamando in causa suo cognato, il boss Salvatore Profeta e Giuseppe Orofino. Nel 1996 Scarantino ritratta: accusando la polizia di averlo costretto a confessare con maltrattamenti e minacce, ma nessuno gli crede. Nel 1999 la Corte d'assise d'appello di Caltanissetta lo condanna 18 anni di reclusione, Profeta viene condannato all'ergastolo.

I processi

Nel 1996 vengono rinviati a giudizio nell'ambito del processo Borsellino bis i presunti mandanti di secondo livello della strage: Salvatore Riina, detto ‘Totò', Pietro Aglieri, Salvatore Biondino, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Gaetano Scotto e Francesco Tagliavia. Per tutti verrà confermata in Cassazione la condanna all'ergastolo.

Nel terzo filone del processo (Borsellino Ter) vengono condannati all'ergastolo – sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia tra cui Giovanni Brusca, l'uomo che azionò il telecomando di Capaci –  Salvatore Montalto, Giuseppe Farinella, Salvatore Buscemi e Benedetto, ‘Nitto', Santapaola. Al processo si riunisce anche una parte di quello per la strage di Capaci, che vede gli stessi protagonisti di quello per via D'Amelio. Per la morte di Falcone vengono condannati all'ergastolo anche Giuseppe Montalto, Giuseppe Madonia, Carlo Greco.

Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza

Nel 2008 la Procura di Caltanissetta riapre le indagini sulla strage di via d'Amelio, in seguito alle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, fedelissimo dei fratelli Graviano, che rivela di essere stato l'autore del furto della Fiat 126 utilizzata nell'attentato. Secondo Spatuzza sarebbe stato quel Salvatore Vitale proprietario di un appartamento al civico 21 di via d'Amelio – quello su cui non si indagò – la talpa della mafia nel palazzo. Nel suo maneggio ‘Palermitana equitazione' – in cui il tredicenne Giuseppe Di Matteo, figlio di  Santino, ex mafioso e pentito, venne tenuto segregato due anni prima di essere ucciso e sciolto nell'acido – sarebbe, infatti, avvenuto lo scambio delle targhe per la 126 utilizzata nella strage.

Il quarto processo per la strage di via d'Amelio (Borsellino Quater, tuttora in corso, ndr.) ha inizio. Spatuzza viene condannato a quindici anni per il loro ruolo avuto nella strage, mentre l'ex pentito Salvatore Candura a dodici anni per calunnia aggravata.

Mandanti occulti, trattative e depistaggi

Secondo le dichiarazioni di alcuni pentiti, a cavallo tra le stragi gli uomini del Ros avrebbero avvicinato l'ex sindaco DC di Palermo, Vito Ciancimino, per intavolare una ‘trattativa' Stato-mafia. In cambio dell'arresto di pericolosi latitanti sarebbero stati promessi una serie di vantaggi ai mafiosi detenuti. L'elenco delle richieste di Cosa nostra, stilato dal boss Totò Riina, il cosiddetto ‘papello' riguardava l'alleggerimento del regime carcerario 41bis e la revisione del maxiprocesso. La trattativa, che si blocca con l'arresto di Ciancimino, sarebbe stata, secondo Giovanni Brusca proprio "la causa determinante dell'accelerazione del progetto di eliminare Borsellino". "Diamo un altro colpetto", aveva detto Totò Riina.

Il ‘papello'

Chi avrebbe dovuto legiferare in favore della mafia? Quale forza politica nascente avrebbe aderito alle richieste di Riina? Nel '92 Borsellino stava indagando su Berlusconi, Dell' Utri e lo "stalliere" Mangano, considerato da giudice di Palermo una delle "teste di ponte dell'organizzazione mafiosa nel Nord Italia". Secondo il pentito Nino Giuffré –  testimone in importanti processi, dal caso Calvi al processo Andreotti –  proprio i fratelli Graviano sarebbero stati gli intermediari tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, in procinto di candidarsi con Forza Italia. Sarebbe stato proprio Giuseppe Graviano, nel 1994 a rivelargli che il futuro premier Berlusconi aveva stretto – con la mediazione di Marcello Dell'Utri – un accordo politico-elettorale tra Cosa Nostra e il partito Forza Italia. Nel 1998 Berlusconi e Dell'Utri vennero iscritti nel registro degli indagati per concorso esterno in strage, le loro posizioni, tuttavia, vennero entrambe archiviate.

L'agenda rossa

In questa prospettiva le stragi Capaci e via D'Amelio vengono lette come risposta di organizzazioni economico-politiche alle indagini di Falcone e Borsellino, attraverso il braccio armato di Cosa Nostra, ormai soggetto attivo nella lobby politico-affaristica che vedeva uniti Nord e Sud. In questa prospettiva è stata interpretata dai familiari del giudice scomparso la sparizione dell'agenda che il magistrato portava sempre con sé e sulla quale ci sarebbero state annotazioni importanti. L'allora capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, fotografato sul luogo della strage mentre si allontanava con la borsa del giudice contenente l'agenda rossa, è stato indagato per il furto e per falsa testimonianza. L'agenda è al centro dell'indagine sui cosiddetti ‘mandanti occulti' aperta dalla Procura di Caltanissetta.

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