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Opinioni

Tutta colpa di Prometeo

Ha fatto rumore in rete la notizia che il Tesoro italiano avrebbe perso 3,4 miliardi di dollari in derivati a gennaio a vantaggio di Morgan Stanley. Peccato solo (anzi fortuna) che le cose non stiano affatto così.
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A cura di Luca Spoldi
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Morgan Stanley

Tutta colpa di Prometeo? E’ bastata un articolo dell’agenzia Bloomberg per scatenare in rete un batti e ribatti di commenti contro l’utilizzo dei “maledetti” derivati. Roba che al confronto le polemiche contro gli “avidi speculatori” che nell’ombra agiscono sempre e comunque contro la salute degli stati e le tasche dei relativi ingenui cittadini-investitori sembra una favoletta della buona notte. Ma che c’è di vero in tutta la vicenda, che in realtà non è né nuova, essendo stata ampiamente già divulgata da Alphaville, il blog del quotidiano britannico Financial Times il primo febbraio scorso, commentata poco dopo dai più attenti strategist italiani, né rivelatrice di una “bomba finanziaria”, come invece puntualmente hanno titolato le edizioni online (e c’è da scommettere a ore anche quelle cartacee) dei principali quotidiani italiani? Dire che i derivati siano sempre e solo “farina del demonio” e chiedere di punire duramente le banche “colpevoli” di averli venduti a controparti pubbliche (nella fattispecie al Tesoro italiano) è come voler incatenare Prometeo per l’eternità perché lo sciagurato ha portato il fuoco all’umanità e col fuoco se non si sta attenti ci si può scottare (o finanche incendiare intere città e causare la morte di migliaia di persone).

Cerchiamo di fare chiarezza. In questi casi la rete (nello specifico Twitter) da un lato aiuta a trovare rapidamente le tracce di eventuali “sviste” facendo così scoprire facilmente falsi scoop, dall’altro per la stessa velocità con cui i commenti (e i link) si affastellano gli uni agli altri è facile che chi non è avvezzo del mestiere (in questo caso di intermediario finanziario) finisca col sentirsi ancor più disorientato, giornalisti per primi si direbbe. La vicenda si può così riassumere: il Tesoro italiano ha negli anni acceso una serie di contratti derivati sui tassi e sulle valute e ne ha tratto importanti guadagni almeno fino al 2006. Secondo le statistiche di Eurostat (anche queste note da tempo) “giocando” coi derivati il Tesoro italiano ha guadagnato nel decennio 1998-2008 l’equivalente di otto miliardi di euro. Miliardi che dunque non sono stati sfilati dalle tasche degli italiani con ulteriori “manovre” di bilancio nel corso dello stesso decennio e questo nonostante che negli ultimi due anni, 2006 e 2007, a causa del mutato scenario dei tassi e dei cambi già si fossero iniziate a soffrire alcune perdite (per circa 729 milioni di euro in tutto e che dunque hanno ridotto un profitto altrimenti superiore agli 8,7 miliardi di euro). Ora è accaduto che dal 2008 in poi, complice la crisi dei mercati seguiti al crack di Lehman Brothers prima e alla crisi del debito sovrano europeo poi il Tesoro abbia spesso trovato più conveniente non rinnovare la copertura sui tassi ma lasciar scadere via via i contratti stessi, per evitare di dover fornire ulteriori garanzie, ossia di indebitarsi ulteriormente.

Cos’è successo a inizio anno? A inizio anno in particolare Morgan Stanley ha segnalato nella sua trimestrale di aver ridotto la propria esposizione netta nei confronti dei titoli di stato italiani da 4,9 a 1,5 miliardi di dollari. Dopo i primi commenti del tipo “Morgan Stanley non ha fiducia nell’Italia” (banchieri americani, vil razza dannata!) si scopre (lo fa il Financial Times, appunto, un mese e mezzo prima di Bloomberg e della massa di “commentatori” pedissequi italiani) che in verità la banca americana non ha venduto nulla, è stato il Tesoro che non ha rinnovato i contratti in essere per un importo nozionale (ossia figurativo: come dire il valore per il quale ci si stava assicurando, da non confondere col premio dell’assicurazione!) appunto di 3,4 miliardi di dollari (circa 2,6 miliardi di euro). E qui i commentatori britannici ironizzano: “l’Italia ha un incentivo positivo a non emettere nuove garanzie o rilassarsi su queste posizioni”, perché “significherebbe emettere più debito”, meglio “prendere tempo in attesa che le operazioni di swap giungano a scadenza”. Mentre 45 giorni dopo i colleghi americani sentenziano: “l’Italia, la seconda più indebitata nazione dell’Unione Europea, ha pagato la somma per svincolarsi da contratti derivati degli anni Novanta” perché “è meno costoso cancellare la transazione che rinnovarla” e comunque “il costo, pari all’ammontare che sarà raccolto tramite l’aumento dell’Iva previsto quest’anno, evidenzia i rischi dei derivati che un paese usa per ridurre il costo del debito e proteggersi contro variazioni di tassi d’interesse e cambi che potrebbero generare perdite per i contribuenti”. Ma il Tesoro italiano evidentemente è una congrega di amanti del rischio visto che, orrore, ha “perso oltre 31 miliardi di dollari sui propri derivati valutati a prezzi di mercato”.

Come stanno realmente le cose? La stessa Bloomberg tuttavia spiega nel pezzo che “i cinque maggiori operatori statunitensi in swap – Goldman Sachs Group (quella i cui funzionari erano soliti definire i clienti dei “pupazzi” e avrebbero voluto solo “cavare loro gli occhi” pur di vendergli i contratti più lucrosi possibile per sè medesimi avidissimi banchieri), Morgan Stanley, Bank of America, Citigroup e Jp Morgan Chase & Co (molte delle quali già finite sotto inchiesta per una ben più grave vicenda di derivati venduti al Comune di Milano, vendita che ha portato a perdite elevate per il Comune e che potrebbe celare una truffa secondo gli inquirenti italiani) – hanno una esposizione netta complessiva  di 19,5 miliardi di dollari nei confronti dei titoli di stato italiani. E a quando si sommano anche le posizioni detenute dalle maggiori banche europee si scopre che il totale sale fino a 31 miliardi di dollari. Ma di che stiamo parlando? Del nozionale netto dei contratti derivati, ossia del valore assicurato, non del premio pagato (che è calcolato in proporzione al nozionale) né della perdita realizzata dall’una o dall’altra controparte (che dipende da come si sono mossi i tassi o i cambi). E’ in sostanza la protezione che vendono i venditori di swap (come Morgan Stanley, che nel frattempo il Tesoro italiano avrebbe sostituito con Banca Imi, del gruppo Intesa Sanpaolo, riaprendo dunque il contratto di swap evidentemente a prezzi diversi e più convenientei per Via XX Settembre) ovvero che comprano gli acquirenti di swap (come il Tesoro italiano, appunto) e che nel frattempo (dati Isda, dunque ufficiali e aggiornati) è scesa  a 22,23 miliardi di dollari complessivi a fronte di poco più di 9.900 contratti attualmente aperti. Più dell’Italia “rischia” al momento la Francia (22,38 miliardi di dollari di nozionale netto), poco meno la Germania (19,66 miliardi): non sembra dunque che Via XX Settembre sia abitato da funzionari così sprovveduti.

Un problema culturale e politico. Semmai, come già ha affermato uno che di derivati e di scommesse in ambito finanziario se ne intende, George Soros, si può dire che “non è lo strumento a essere malvagio, ma il suo utilizzo” il più delle volte. Il problema è dunque culturale e politico, non tecnico, si tratta di trovare il modo di rendere più efficienti i mercati dove tali strumenti sono scambiati (usualmente OTC, ossia mercati over the counter, non regolamentati), educando in parallelo il pubblico degli investitori/contribuenti (e i giornalisti che dovrebbero informarli) affinché non prendano a gridare “al lupo, al lupo” ogni volta che sentono la parola “derivati” (salvo poi, magari, accettare supinamente ogni genere di balzello dalla banca sotto casa o qualsiasi ulteriore spremitura fiscale purché condita di abbondanti dosi di moralismo, meglio ancora se di matrice tedesca). Perché le banche d’affari potranno ormai non aver più alcuna morale, ma non per questo tutti i loro clienti sono realmente dei “pupazzi”: al Tesoro italiano lavorano fior di professionisti (lo stesso Mario Draghi prima di diventare Governatore di Banca d’Italia e poi Presidente della Banca centrale europea è stato a lungo direttore generale del Tesoro), in grado di valutare correttamente rischi e opportunità dei contratti proposti dai banchieri a differenza di molte amministrazioni locali. Intendiamoci: l’albero degli zecchini d’oro non esiste e certamente i banchieri che si travestono da novelli gatti e volpi per trarre in inganno ingenui Pinocchi bene non fanno, anzi, ma anche i Pinocchio della situazione (dai giornalisti ai politici fino ai presunti “esperti”) dovrebbero imparare a studiare un po’ di finanza prima di farsi abbindolare. O no?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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