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Trento, docente licenziata perché lesbica. Scuola dovrà pagare risarcimento di 45mila euro

La vicenda risale al 2014. Alla docente, che insegnava educazione artistica all’istituto Sacro Cuore, dopo 5 anni non era stato rinnovato il contratto, perché si era rifiutata di smentire la sua presunta omosessualità. Il caso è finito in tribunale. In primo grado i giudici avevano deciso per un risarcimento di 25 mila euro all’insegnante e 1500 per due associazioni. La Corte d’Appello ha sostanzialmente raddoppiato la somma.
A cura di Claudia Torrisi
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Una scuola privata cattolica di Trento che non aveva rinnovato il contratto a un'insegnante perché lesbica dovrà risarcire 45 mila euro alla donna e altri 10 mila a Cgil e all'associazione Certi Diritti che avevano seguito il caso. A decidero è stata la corte d'Appello della città trentina, che ha raddappiato quanto già previsto in primo grado.

La vicenda risale al 2014. Alla docente, che insegnava educazione artistica all'istituto Sacro Cuore, dopo cinque anni non era stato rinnovato il contratto, perché si era rifiutata di smentire la sua presunta omosessualità. Era stata messa davanti a un bivio dalla direzione: o smentisci di essere lesbica e di avere una compagna, o non lavorerai più qui. L'insengante aveva raccontato che nei cinque anni in cui era stata al Sacro Cuore "ogni anno non c’erano stati problemi: anzi direttrice e genitori erano entusiasti per il mio lavoro". Quell'anno, però, invece della solita chiamata per il rinnovo ne ha ricevuto un'altra, sempre dalla madre superiora: "pensavo fosse per il nuovo contratto e invece esordisce con una domanda strana: vuole sapere se è vero quello che si dice in giro, e cioè che avrei una compagna e che quindi fossi lesbica".

Nonostante la scuola avesse in un primo momento smentito questa ricostruzione, in una successiva intervista a una radio locale la direttrice Eugenia Libratore aveva ammesso il colloquio con la docente: "Io ho fatto solo una domanda: ho avuto questa percezione, lei ci può aiutare a capire? Visto che in questa scuola si fa educazione e bisogna avere attenzione alle persone. C’è tutto un discorso che gira intorno ai bambini che frequentano la scuola: è un discorso educativo".

Diverse associazioni per i diritti Lgbt hanno denunciato i fatti, e la vicenda è finita in tribunale, con l'aiuto anche di Cgil e Certi Diritti, costituitesi nel procedimento. In primo grado i giudici avevano deciso per un risarcimento di 25 mila euro all'insegnante e 1500 per le due associazioni. La Corte d'Appello presieduta da Maria Grazia Zattoni, invece, ha sostanzialmente raddoppiato la somma: l'istituto dovrà pagare 45 mila euro alla docente, divisi tra danno patrimoniale (circa 13 mila) e danno morale (30 mila euro); altri 10 mila andranno a Cgil e Certi Diritti. I giudici hanno "accertato la natura discriminatoria per orientamento sessuale, individuale e collettiva, della condotta attuata dall’Istituto delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù di Trento in ordine alla selezione per l’assunzione degli insegnanti". Per questa ragione va ordinata alla scuola "l’immediata cessazione di tale condotta".

Le ragioni della sentenza di primo grado "di affermazione della discriminazione diretta e e della discriminazione diretta collettiva, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non sono affatto frutto di grossolani errori, sviste, omissioni e fraintendimenti, e vanno condivise", si legge nella sentenza della Corte d'Appello.

"Mi ritengo finalmente reintegrata nella mia dignità di docente e di donna", ha fatto sapere l'insegnante in una nota diffusa dal suo legale. "Il riconoscimento espresso della falsità delle dichiarazioni era per me prioritario – ha aggiunto – al di là di ogni risarcimento di denaro. È stata accertata la diffamazione e la ritorsione che ho subito con le dichiarazioni dell’Istituto alla stampa nazionale. Nulla di peggio si poteva dire a un’insegnante se non che abusava del proprio ruolo per turbare i ragazzi. E sono anche contenta che in Italia si ribadisca che la vita privata di ognuna e ognuno è per l’appunto privata e che nessun datore di lavoro può entrare nelle nostre famiglie e chiedere chi siamo, chi amiamo o se vogliamo come donne abortire o meno".

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