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Opinioni

Stipendi bassi, asili nido e pensioni: per le donne ancora non c’è lavoro

In Italia meno di una donna su due lavora, al sud è solo una su tre.
A cura di Michele Azzu
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“Serviranno ancora 118 anni per l’uguaglianza nei salari” tra donne e uomini, riporta l’ultimo rapporto del World Economic Forum. E “In Europa le donne lavorano gratis per due mesi l’anno”, ha affermato la commissaria europea Vera Jourovà. Sono solo due affermazioni recenti, basate sui dati, che possono darci un’idea del punto in cui si trova la situazione del lavoro femminile.

C’è la questione del gap salariale, perché per le stesse mansioni le donne guadagnano meno degli uomini, e questo divario – che nell’UE è mediamente del 16% e in Italia del 7% – non accenna a diminuire. C’è poi il problema dell’occupazione in sé, perché in Italia sono troppo poche le donne che lavorano: meno della metà. E al sud la situazione è preoccupante, con due donne su tre che rimangono a casa.

C’è poi da considerare l’organizzazione stessa del lavoro, i cui orari sfavoriscono le donne rispetto agli uomini, e perfino sulle pensioni i numeri più recenti confermano un trattamento dispari fra i generi. Insomma, nel 2016, la situazione del lavoro per le donne è ancora difficilissima, in Europa come in Italia.

Nel nostro paese, però, alcuni numeri hanno fatto ben sperare. Ad esempio, l’introduzione della legge sulle “quote rosa”, ovvero della soglia minima di presenza femminile nei consigli d’amministrazione delle società semi pubbliche o quotate in borsa. Una legge che ha permesso all’Italia di risalire diverse posizioni nella classifica mondiale della disparità di genere.

Il governo Renzi, inoltre, ha assegnato i bonus per le baby sitter: 600 euro al mese per i sei mesi successivi alla gravidanza per permettere alle donne di non interrompere il lavoro. Un bonus che è stato concesso anche alle partite Iva (ma solo per tre mesi). Tutte cose ottime, che però alla resa dei conti non bastano a cambiare la situazione delle donne nel lavoro. Vediamo perché.

IL GAP NEI SALARI. La disparità di retribuzione, a parità di mansione e qualifiche fra uomini e donne, è uno dei temi più dibattuti sulla questione di genere. La media dell’UE di questa disparità è del 16%, un dato che ha portato la commissaria europea Jourovà ad affermare come le donne in Europa lavorerebbero gratis (traducendo in mesi quel divario di pagamenti). In Italia il gap di salario, invece, è al 7.3%. Un dato confortante rispetto alla doppia cifra europea. Il problema, però, è che mentre in europa questo dato è in diminuzione, in Italia è cresciuto: nel 2008 era il 4.9%.

Secondo il World Economic Forum (WEF), di questo passo ci vorranno ancora 118 anni perché le donne raggiungano salari pari a quelli degli uomini. Attualmente, invece, le condizioni per le donne sono quelle che gli uomini vivevano una decade fa. Sull’Italia un dato più aggiornato rispetto q eullo del WEF arriva dal rapporto Gender Gap 2016 dell’osservatorio JobPricing, che rileva una differenza di salario annuo del 10.9% fra donne e uomini (29.985 lordi per gli uomini contro i 26.725 delle donne).

Il divario più ampio, riporta il rapporto, si trova nei settori finanziario e dei servizi. Se quindi a un primo sguardo il gap salariale di genere in Italia può sembrare migliore di altri paesi, nei dati del WEF l’Italia si piazza 127esima su 145 paesi per uguaglianza nei salari, e 91esima nel divario generale dei pagamenti.

TROPPO POCHE LE DONNE CHE LAVORANO. Questi dati vanno affiancati a un altro grande dilemma: in Italia è un problema anche solo trovare lavoro per le donne. Stando ai dati dell’OCSE (l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) l’Italia è il terzultimo paese, dopo Turchia e Messico, per la partecipazione al lavoro delle donne, che è ferma al 51%. Le donne fra i 15 e 64 anni che lavorano in Italia sono il 47%: meno di una su due.

Al sud del paese questa media, però, raggiunge numeri preoccupanti: in Sicilia, ad esempio, lavora il 27.4% delle donne. In breve, mentre al nord lavorano due donne su tre, il rapporto si inverte nel sud Italia dove due donne su tre non lavorano. Creando così una media nazionale misera, con meno di una donna su due che lavora. La questione meridionale, quindi, pesa molto sulla bassa partecipazione al lavoro delle donne.

QUOTE ROSA E BONUS BABY SITTER. Nonostante questi numeri facciano un po’ paura, l’Italia è salita di 28 posizioni dal 2014 al 2015 nella classifica generale della disparità di genere (dal 69° al 41° posto). Questo dato è probabilmente dovuto ai primi effetti riscontrati dall’introduzione della legge sulle “quote rosa” -la 120 del 2011 – che obbligava le società quotate in borsa e quelle con partecipazione pubblica a introdurre quote di presenza femminile nei consigli d’amministrazione (inizialmente del 20% e in seguito del 33%). Stando agli ultimi dati, ora in Italia il 27% dei cda pubblici e semi-pubblici è costituito da donne (nel 2011 erano il 7%).

Il governo Renzi, dal canto suo, ha voluto intervenire sul lavoro femminile finanziando per il 2016 i voucher per le baby sitter e per l’asilo nido. Al posto del congedo, dunque, le neo-mamme lavoratrici possono ricevere 600 euro al mese in voucher per un periodo di 6 mesi dopo il parto, con cui poter pagare asili nido o una baby sitter. L’assegno può essere preso anche dalle lavoratrici autonome, purché non siano iscritte alla Gestione Separata, ma solo per tre mesi.

QUALI SONO I PROBLEMI. Purtroppo, però, siamo di fronte alla solita goccia nell’oceano, e i dati lo confermano. Sei mesi di voucher non risolvono le gravi carenze nella scuola dell’infanzia italiana: il rapporto dell’associazione Cittadinanzattiva dello scorso settembre individuava come in Italia solo il 12% dei bambini fino ai 2 anni trovi posto negli asili nido. E un bambino su 5 resta in lista d’attesa, con una spesa media di 311 euro al mese. Anche qui ci sono grosse differenze tra nord e sud: in Emilia Romagna il 28% dei bambini riesce a frequentare l’asilo nido, mentre in Campania solo il 2%.

La cura dei bambini e le gravidanze, dunque, risultano essere ancora le cause principali della bassa partecipazione al lavoro delle donne in Italia. Ma c’è anche l’organizzazione del lavoro a favorire gli uomini secondo l’analisi de La Voce: “I nostri risultati indicano come le politiche di pari opportunità di genere dovrebbero essere orientate, oltre che ai differenziali retributivi, anche alle modalità di organizzazione del lavoro”. In generale, a pesare, è anche l’assenza generale di opportunità di trovare un’occupazione, specialmente nel sud del paese.

E questa situazione si ripercuote anche sulla futura pensione delle donne. Secondo l’Istat, infatti, nel 2014 le donne pensionate in Italia hanno ricevuto in media importi inferiori di 6mila euro l’anno rispetto a quelli maschili. Una differenza enorme, che si ritiene dovuta alle interruzioni nel lavoro femminile dovute alla gravidanza e alla cura della famiglia. Una situazione di discriminazione continua che, come evidenziano i numeri, non accenna a diminuire.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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