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Opinioni

I tanti dubbi sulle “privatizzazioni” di Eni, Enel e Stm

Il governo si prepara a varare una nuova “tranche” di privatizzazioni cedendo quote di Eni, Enel e Stm. Ma i dubbi sull’operazione sono numerosi, visto che il controllo resterà pubblico, che il Tesoro rinuncerà a buoni dividendi e che l’incasso dipenderà in buona misura dalle mosse della Bce di Mario Draghi…
A cura di Luca Spoldi
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Renzi Padoan

Per favore, non chiamatele privatizzazioni: tra qualche settimana (la “finestra” individuata è tra la fine di settembre e la fine di novembre) il Tesoro dovrebbe collocare sul mercato le residue quote di Enel ed Eni ancora detenute direttamente, con l’obiettivo di ricavare almeno 5, mentre altri 700-800 milioni dovrebbero venire dalla cessione del 13,75% di Stmicroelectronics al Fondo strategico italiano entro fine anno. Contando anche il rimborso anticipato di 3 miliardi di euro di “Monti bond” da parte di Mps, l’obiettivo dei 10 miliardi di euro che secondo il Def (Documento di economia e finanza) il governo italiano dovrebbe ricavare dalle “privatizzazioni” sembrerebbe a portata di mano. Tutto bene? Dipende dai punti di vista: anzitutto l’utilizzo delle virgolette è d’obbligo, visto che secondo logica privatizzare vuol dire cedere il comando di un’azienda a controllo pubblico ad un gruppo di investitori privati, cosa che in nessuno dei tre casi sopra ricordati sarà vero.

L’Eni, ad esempio, è già ora controllato di fatto dallo stato attraverso Cassa Depositi e Prestiti (socia al 26,37%) più che per la residua quota in meno al Tesoro (il 4,34%), mentre nel caso di Enel (controllato al momento al 31,244% dal Tesoro) il controllo “di fatto” non sarebbe comunque a rischio, anche se si scivolerebbe sotto la quota del 30% oltre la quale scatta l’obbligo di Opa per chiunque voglia acquistare una partecipazione in una società quotata (come sono Eni, Enel e Stm). Inoltre il Fondo strategico italiano è a sua volta controllato da Cassa Depositi e Prestiti (che fa capo per l’80,10% al Tesoro italiano e per il 19,9% restante alle principali Fondazioni bancarie italiane) e il passaggio della quota di Stm finora in mano al Tesoro andrebbe a ricalcare quanto già avvenuto sul versante francese (che ha trasferito un analogo 13,75% in precedenza in mano ad Aveva e al Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives al Fonds stratégique d’investissement).

Se nulla cambierà dal punto di vista sostanziale per quanto riguarda il controllo, occorre peraltro chiedersi se è opportuno che il Tesoro rinunci a partecipazioni su cui percepisce dei dividendi elevati: il rendimento in termini di dividendi della partecipazione in Eni ha oscillato negli ultimi otto anni tra il 5,5% e il 7,5% circa, ben superiore al costo medio del debito pubblico, quello di Enel è risultato più modesto, ma si è mantenuto superiore al 3% (attualmente è intorno al 3,22%). Più volatile il rendimento di Stm, attualmente attorno al 4,13%. Visto che, grazie all’azione della Bce di Mario Draghi, il costo medio dei titoli di stato (che oggi hanno toccato ulteriori minimi con altri 2,5 miliardi di Btp agosto 2019 collocati in asta al tasso lordo dell’1,10 % e 4 miliardi di Btp a 10 anni collocati al tasso del 2,39%) è progressivamente calato e oscilla ormai attorno al 3,5%, mentre quello del debito pubblico complessivo dovrebbe scivolare entro fine anno sotto il 4% (e sotto il 3,8% l’anno prossimo), forse sarebbe meglio non dismettere le quote in Eni (e in Stm, contando anche sul completamento della ristrutturazione del gruppo e sull’effetto benefico che tale operazione dovrebbe avere in termini di rendimenti sul capitale e di dividendi), mentre si potrebbe procedere senza particolare remore nel caso di Enel, che tra l’altro opera in un settore maturo e privo di particolari prospettive di crescita a breve, almeno per il mercato domestico,

Ovviamente c’è poi da tenere in conto della “strategicità” delle singole aziende e del rischio che un domani il controllo possa effettivamente finire in mano ad altri soggetti che non lo stato italiano (o sue controllate più o meno indirette). Sarà un caso ma sia in Eni sia in Enel è già presente, con una partecipazione di poco superiore al 2%, la Banca del popolo cinese, ossia la banca centrale di Pechino, che dunque potrebbe approfittare delle “privatizzazioni” per arrotondare la sua quota. Nella misura in cui la Cina (o altri investitori) potrà avere interessi contrastanti con quelli delle società italiane potrebbero nascere, come capitato ad esempio in casa Telecom Italia (dove il socio estero, Telefonica, ha interessi divergenti da quelli della sua partecipata italiana in Brasile, tanto che in questi giorni le due società stanno proponendo offerte concorrenti al gruppo francese Vivendi per la sua controllata brasiliana Gvt). E’ un rischio che non si può escludere ma che, semmai, dovrebbe riflettersi in un prezzo di vendita adeguato nel momento in cui il controllo stesso venisse trasferito (cosa che, come detto, non accadrà questo autunno).

Resta dunque da valutare quanto potrà realisticamente incassare il Tesoro: Enel a 4 euro per azione capitalizza circa 38 miliardi di euro, Eni a 18,85 euro “vale” 68,5 miliardi circa, Stm a 6,30 euro a titolo ha una capitalizzazione complessiva di 5,75 miliardi. A questi livelli il Tesoro incasserebbe dunque 1,9 miliardi per la quota di Enel, 2,9 miliardi per Eni, 790 milioni per Stm: in tutto 5.590 milioni di euro. La stima di 5 miliardi circa sembra dunque già tener conto di un 10% di “sconto” rispetto ai livelli attuali, cosa che pare congrua con analoghe operazioni di collocamento avvenute in passato ma che richiede che da qui all’autunno il listino di Milano non perda ulteriormente quota o, semmai, torni a salire lasciandosi alle spalle le incertezze estive. Ipotesi non impossibile ma molto dipendente dalle future mosse della Bce in materia di incentivi monetari (in particolare dal possibile lancio a ottobre di un vero e proprio “quantitative easing” che porti l’istituto guidato da Mario Draghi ad acquistare crediti cartolarizzati di emittenti del Sud Europa nel tentativo di sostenere la crescita e sconfiggere la deflazione sempre più evidente al momento).

Così anche le privatizzazioni dell’era Renzi finiranno col dipendere dall’abilità di Mario Draghi, guarda caso già presidente tra il 1993 e il 2001 del Comitato Privatizzazioni e forse è meglio così, visto gli esiti a dir poco deludenti del primo “assaggio” di privatizzazioni visto lo scorso luglio che ha portato Fincantieri in borsa a 0,78 euro per azione, il minimo della “forchetta” di prezzi inizialmente prevista (livello comunque rapidamente abbandonato dal titolo che attualmente oscilla a 69 centesimi per azione, con una perdita dell'11,5% circa in meno di due mesi), dopo una riduzione del collocamento dai previsti 700 milioni a 450 milioni e un ribilanciamento dell’offerta che ha spostato sugli investitori “retail” quasi tutto il peso dell’operazione (401 milioni di titoli collocati, per 313 milioni di euro di incasso, contro i 141 milioni inizialmente previsti) a fronte del disinteresse degli investitori istituzionali, specialmente esteri (a cui sono andati in complesso appena 49 milioni di titoli anziché i previsti 563 milioni). Siamo sicuri che convenga (e a chi) procedere a questa nuova ondata di privatizzazioni “all'italiana”? Al riguardo più di un dubbio è legittimo.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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