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Sono passati ottanta anni ma l’Etiopia rimane sulla coscienza degli italiani

La guerra, nelle intenzioni del Duce, deve portare prestigio all’Italia e lustro al fascismo. Il fallimento non è previsto. Perciò, dopo le prime difficoltà, si farà ricorso sistematico all’uso dei gas.
A cura di Marcello Ravveduto
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È affacciato al balcone di piazza Venezia. L’adunata è, come dice la voce della radio, oceanica. Tutti sono in attesa della parola del Duce, ormai da oltre dieci anni guida dell’Italia fascista. Appare impettito in divisa. Ha ottenuto ciò che vuole. Il mondo intero, tranne la Germania, lo ha accusato di aver colpito una nazione libera, componente della Società delle Nazioni, difesa dalla comunità internazionale in base al principio di autodeterminazione dei popoli, ma lui è andato avanti.

Il dittatore non si cura delle minacce, né delle sanzioni economiche comminategli: divieto per le nazioni facenti parte della società delle Nazioni di mandare armi e munizioni in Italia; divieto di concedere prestiti al governo di Roma; divieto di importare merci italiane; divieto di esportare in Italia merci che potessero essere utili all'industria di guerra.

Il risultato della tensione è triplice: i rapporti con gli inglesi, che pure guardano a Mussolini con attenzione quale argine al comunismo, si deteriorano irreparabilmente; il menefreghismo fascista annulla il prestigio della Società delle Nazioni che non riesce a far rispettare la legge internazionale al governo italiano; l’applicazione delle sanzioni spinge l’Italia ad avvicinarsi alla Germania di Hitler per avere le materie prime di cui ha bisogno.

Tutto comincia il 2 ottobre 1935. La guerra, nelle intenzioni del Duce, deve portare prestigio all’Italia e lustro al fascismo. Il fallimento non è previsto. Per questo si invia in Abissinia un esercito di grandi dimensioni che, per numero e armamenti, è paragonabile alle forze militari impiegate nelle guerre europee. Gli italiani inviati in Africa sono almeno 200 000, appoggiati da un ulteriore contingente di circa 100 000 ascari (soldati indigeni) eritrei. Un posto di rilievo, essendo una guerra voluta dal fascismo, è assegnato alla milizia , che partecipa alla guerra con almeno 50 000 volontari.

In genere si tratta di fascisti convinti; molti però, a posteriori, ammettono di essersi arruolati per fuggire la disoccupazione. La vera forza dell’esercito italiano, tuttavia, consiste nel suo armamento, decisamente moderno, se confrontato a quello delle forze etiopiche. Inoltre, rispetto al passato, la novità è costituita dall’aviazione, le cui azioni sono ampiamente celebrate dalla propaganda fascista.

Dopo una prima fase di stallo, sotto il comando di De Bono, Mussolini decide di affidare le operazioni belliche al Maresciallo Badoglio che mobilita tutte le risorse militari tra la fine del 1935 e l’inizio del 1936. Prima difende le posizioni e poi contrattacca facendo largo uso di gas, già ampiamente sfruttato in Libia, tra il 1923 e il 1931, contro i ribelli che si opponevano alla dominazione italiana.

Negli anni Trenta, l’aggressivo chimico più micidiale è l’iprite, la cui produzione giornaliera in Italia, tra il 1935 e il 1936, passa da 3 a 18 tonnellate. In totale saranno rovesciate sugli etiopi circa 600 tonnellate. Il primo a chiedere l’autorizzazione a usare tutti i mezzi possibili è il generale Graziani (il 12 ottobre 1935), ovvero colui che si presenta come il generale nuovo: fascista, dinamico e moderno. Mussolini gliela concede il 27 ottobre. Anche Badoglio farà ricorso ai gas ancor prima di ottenere formale permesso dal Duce. Gli attacchi chimici vanno avanti per circa tre mesi sganciando bombe che irrorano goccioline di liquido corrosivo (e, quindi, mortale) su un’area ellittica di circa 500/800 per 100/200 metri.

Gli effetti durano diversi giorni: per questo motivo l’iprite è usata solo lontano dal fronte, in modo che non possa colpire i soldati italiani. Per la stessa ragione, nessun reparto italiano (con l’ovvia esclusione degli aviatori) ha mai assistito a un attacco condotto contro il nemico mediante le armi chimiche.

Piegata e decimata la difesa etiope, il 5 maggio 1936 Mussolini si affaccia al balcone e dice: «Il Maresciallo Badoglio mi telegrafa: “Oggi 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abebà”. Durante i trenta secoli della sua storia l'Italia ha vissuto molte ore memorabili, ma questa di oggi è certamente una delle più solenni. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la guerra è finita. Annuncio al popolo italiano e al mondo che la pace è ristabilita. Non è senza emozione e senza fierezza che, dopo sette mesi di aspre ostilità, pronuncio questa grande parola, ma è strettamente necessario che io aggiunga che si tratta della nostra pace, della pace romana che si esprime in questa semplice, irrevocabile, definitiva proposizione: l'Etiopia è italiana. Italiana di fatto, perché occupata dalle nostre armate vittoriose, italiana di diritto, perché col gladio di Roma è la civiltà che trionfa sulla barbarie, la giustizia che trionfa sull'arbitrio crudele, la redenzione dei miseri che trionfa sulla schiavitù millenaria. Con le popolazioni dell'Etiopia, la pace è già un fatto compiuto. Le molteplici razze dell'ex impero del Leone di Giuda hanno dimostrato per chiarissimi segni di voler vivere e lavorare tranquillamente all'ombra del Tricolore d'Italia».

Nonostante i crimini di guerra, la sporcizia morale di una guerra asimmetrica e barbara, il razzismo insopportabile e barbino, le sanzioni subite e la condanna generale della comunità internazionale, Mussolini ha, in quel momento, il massimo consenso, tributatogli anche da una parte delle opposizioni silenti.

In verità, la guerra d’Etiopia non è soltanto anacronistica (l’ultima conquista coloniale fuori tempo massimo) ma è anche l’apogeo della dittatura. Da quel momento in poi l’Italia sarà più sola e, sebbene la propaganda glorifichi la politica autarchica, incapace di risollevarsi dallo stato di prostrazione derivante dall’isolamento politico ed economico che la consegnerà nella mani di Hitler.

Nella memoria collettiva la conquista dell’Etiopia, tuttavia, rimarrà un punto fisso per gli italiani del Novecento. Molti partono sicuri di trovare un fazzoletto di terra dove avviare una nuova vita, lasciandosi persuadere dalla retorica del contadino/soldato. Eppure l’odore acre dell’iprite, del cui abuso la maggior parte dei coloni ne ignora l’utilizzo, non domerà il popolo eritreo.

Con ogni probabilità, la sua continua e costante guerriglia (sin dalla proclamazione dell’Impero) anticiperà la comparsa di quella resistenza civile e militare che ha caratterizzato un vasto fronte antitotalitario internazionale durante l’intero arco della seconda guerra mondiale.

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