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Opinioni

Solo la “troika” può salvare l’Italia?

Sarà l’adesione alla ricetta della “troika”, fatta di riforme strutturali a partire da quelle del lavoro, che salverà l’Italia da un declino altrimenti inevitabile dovuto alla concorrenza di paesi come Cina o Russia pronti a comprarsi il meglio del “Made in Italy”? Forse, ma anche no…
A cura di Luca Spoldi
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Evviva la "troika", la "troika" è la nostra bandiera, solo la "troika" ci salverà. Da chi? Ma dall’invasione cinese (ma anche russa) che dopo aver spiazzato la produzione di migliaia di piccole e medie imprese italiane sta manifestandosi sempre più sotto forma di acquisizione di marchi e prodotti tipici italiani. Ma è davvero così e se sì perché? Andiamo con ordine, come sempre. In queste ore il governo è impegnato a far passare al Senato il “Jobs Act”, prima (e per ora unica) riforma “strutturale” da mostrare all’Europa come tangibile segno di buona volontà da parte del governo Renzi che da qualche mese prova ad alternare il bastone di fantomatiche riforme fatte “senza guardare in faccia nessuno” (soprattutto quando non toccano la base elettorale dell’ex sindaco di Firenze e della sua maggioranza) che dovrebbero servire, anche secondo gli esperti del Fondo monetario internazionale, a rilanciare la "carota" della crescita economica italiana, altrimenti destinata a un futuro assai poco radioso.

Alcune domande continuano tuttavia a sorgermi spontanee: perché serve la crescita (e quanto robusta dovrebbe essere) e perché servono le riforme (e quali dovrebbero essere)? La crescita serve, essenzialmente, per rendere sostenibile il debito pubblico fin qui accumulato dall’Italia. Debito contratto nei confronti sia di investitori internazionali sia di investitori domestici (principalmente le banche italiane e tramite esse ai risparmiatori italiani). Siccome sul debito pubblico l’Italia paga (in base alle stime contenute nella Nota di aggiornamento del Def 2014) l’equivalente del 4,7% del Pil e continuerà a pagare il 4,5% l’anno venturo e quello seguente per calare al 4,2% nel 2018, servirebbe una crescita nominale pari almeno a quel tasso per evitare di veder aumentare il rapporto debito/Pil. Perché è importante che il rapporto debito/Pil non aumenti? Perché al di là delle occhiatacce della "troika" prima o poi a storcere il naso potrebbero essere i mercati, smettendo di rinnovare costantemente (e a costi marginali in continuo calo) il debito stesso e facendoci fare la fine dell'Argentina.

Quando questo potrebbe avvenire? Il giorno in cui la Bce, per qualsiasi motivo, dovesse cessare la sua politica di tassi reali negativi o nulli sull’euro e rinunciasse a garantire de facto la solvibilità dei paesi del Sud Europa, Italia in testa. Con un’inflazione che, come ha più volte dichiarato lo stesso Mario Draghi, rischia di rimanere sotto la soglia del 2% annuo “a lungo”, con possibili danni alle economie reali dei paesi europei più deboli (Italia e non solo) non c’è altro da fare per qualsiasi governo che cercare di far ripartire la crescita. Già, peccato che negli ultimi 15 anni la crescita italiana sia stata pari a solo lo 0,3% reale e che dunque serviranno riforme realmente “strutturali” per rianimare il paziente se nulla cambierà nel modo in cui le imprese italiane hanno provato a crescere (ossia se non si riuscirà a investire in qualità e innovazione e a spostarsi lungo la catena del valore abbandonando settori maturi e su cui non abbiamo una specializzazione sufficiente a tenerci al riparo dai produttori emergenti). Ma come e quali riforme servono per riuscire nell’impresa? Qui le cose si complicano un poco. La “troika” e i suoi cocoriti italiani ritiene che l’unico modello “vincente” sia, per lo meno in Europa, quello tedesco. Qualcun altro ha dei dubbi.

La Germania cosa ha fatto in questi anni? Ha imposto una lunga moderazione salariale, potendo godere peraltro di una forte domanda dall’estero che ha compensato il calo della domanda interna, cosa di cui non sembra poter a priori godere l'Italia. Deflazionati i salari, ossia avendoli ridotti (ma nell’ambito di un welfare molto più ricco di quello che si possono e potranno per anni permettere paesi come la Grecia, la Spagna, il Portogallo e l’Italia), i tedeschi hanno utilizzato la ritrovata competitività delle loro produzioni per investire in innovazione e per effettuare una serie di fusioni e acquisizioni sia entro i confini nazionali sia al di fuori di essi (anche se non tutte le ciambelle sono riuscite, come dimostra la fallimentare esperienza di Daimler-Chrysler, naufragata non tanto sugli aspetti economico-finanziari quanto sulla abissale e non colmata differenza culturale tra le due sponde dell’Atlantico). Innovazioni e fusioni che in Italia sono finora risultate "leggermente" più difficili da portare avanti, "forse" anche per un modello creditizio che andrebbe rinnovato.

Ciò nonostante, è possibile copiare il modello tedesco? In apparenza sì: secondo dati Assolombarda (al 2011), fatta 100 la retribuzione netta, il costo del lavoro era pari in Germania a 199,2, in Francia a 197,2, in Italia a 190,8, in Spagna a 166,4. La differenza riguardava (e riguarda) solo in parte le tasse sul reddito (31,7% in Germania, 19,7% in Francia, 30,7% in Italia, 20% in Spagna) e maggiormente i contributi pagati dalle aziende (32,9% in Germania, 58,6% in Francia, 46,4% in Italia, 38,3% in Spagna) e dai lavoratori (34,7% in Germania, 18,9% in Francia, 13,7% in Italia, 8,2% in Spagna). Per essere più simili alla Germania dovremo dunque andare verso un modello che redistribuisce i pesi del “cuneo fiscale” (più sulle spalle dei lavoratori, meno su quelle delle imprese) e che tende ad abbassarlo (meno contributi e meno entrate fiscali). Cosa in astratto possibile e forse pure auspicabile, in concreto difficile da fare in una fase recessiva in cui ogni ulteriore onere addossato a un percettore di reddito rischia di produrre una contrazione del reddito disponibile e forse un incremento del tasso di risparmio “forzoso” ossia indotto da peggiorate aspettative per il futuro, con possibili ulteriori conseguenze negative in termini di consumi che andrebbero compensati con una maggiore crescita della domanda dall’estero (che invece è quanto meno incerta) per evitare di passare da una recessione a una depressione.

A prescindere da tutto questo, il lavoro (e la crescita economica) difficilmente si crea per decreto o per legge. Cosa succederà se neppure il “Jobs Act” riuscirà a produrre il miracolo? Che l’Italia dovrà rimanere “sotto tutela” della Bce per evitare di schiantarsi al suolo. A meno che non intervengano nuove riforme. Ma quali, visto che: le retribuzioni dei lavoratori dipendenti saranno a quel punto già state ridotte; le retribuzioni dei lavoratori indipendenti (l’esercito delle “partite Iva”) sono già state falcidiate in questi anni di crisi da una sovrabbondanza di offerta di lavoro rispetto alla domanda del medesimo; le pensioni e le spese mediche restano le sole grandi voci del bilancio pubblico che possono in teoria essere ridotte per importi significativi, ma che in pratica è difficile cambino di molto con semplici interventi di “lotta agli sprechi” o “ai furbi”, tanto più nel momento in cui il governo accantona ogni piano di “spending review” fin qui faticosamente elaborato? Speriamo nella “troika”, confidiamo nella “troika”, prepariamo un biglietto di sola andata per mandare i nostri figli a studiare e lavorare e vivere all’estero nel caso arrivi la “troika”. Non sia mai che avesse ragione Stiglitz.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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