Se l’ospite non se ne va, commette reato. Lo dice la Cassazione
“L’ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza”, e commette anche reato. E’ quanto ci ricorda la Cassazione (oltre che il famoso proverbio). E’ stata la quinta sezione penale della Suprema Corte che in una recente sentenza (la n. 5315/2015) ha condannato un uomo per il reato di violazione di domicilio: la ex moglie, ma lo si era rifiutato di lasciare l’abitazione, trattenendosi dunque oltre il dovuto. L’imputato inizialmente era stato accolto dalla stessa donna (con la quale era già separato), ma in seguito ad un litigio insorto con l'ex, aveva deciso di restare in casa, sia pure per un breve periodo di tempo, nonostante i reiterati inviti ad andare via, anche ad opera di un carabiniere intervenuto su richiesta della donna stessa. Il caso è finito così in tribunale.
Ai giudici della Cassazione sono bastate le dichiarazioni della persona offesa, titolare del diritto di esclusione dall'abitazione familiare anche nei confronti del marito separato, e dello stesso carabiniere, per condannare l’uomo. La testimonianza della parte lesa, infatti, ricorda la Suprema Corte, è fonte conoscitiva che "non presenta un'affidabilità ridotta, bisognevole di rafforzamento per raggiungere un'adeguata capacità persuasiva". Al pari di tutte le testimonianze, "deve essere sottoposta al generale controllo sulle capacità percettive e mnemoniche del dichiarante, nonché sulla corrispondenza al vero della sua rievocazione dei fatti, desunta dalla linearità logica della sua esposizione e dall'assenza di risultanze processuali incompatibili, caratterizzate da pari o prevalente spessore di credibilità". Controllo, a detta degli Ermellini, che nel caso specifico, “ha razionalmente e insindacabilmente ritenuto dimostrata la responsabilità dell'imputato”.