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Opinioni

Salvataggio di Grecia, atto secondo

Raggiunta l’intesa a livello europeo, non cambiano i motivi di scetticismo degli investitori. Provano a immaginare un nuovo scenario 11 capi di governo con una lettera indirizzata a Barroso perchè Merkel capisca.
A cura di Luca Spoldi
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Jose Manuel Barroso, Herman Van Rompuy

Crisi di Grecia, punto e a capo: raggiunto come atteso da giorni un accordo sul secondo programma di aiuti comunitari ad Atene da 130 miliardi di euro e dato il via libera all’accordo per la ristrutturazione “volontaria” di circa 206 miliardi di debito pubblico greco, il bicchiere resta per molti analisti ancora mezzo pieno per le stesse ragioni più volte esposte sinora e riassumibili in due dati di fatto: non c’è ancora certezza sui mezzi di cui alla fine potrà disporre il meccanismo permanente di stabilizzazione (Esm) che da luglio sostituirà il fondo “salva stati” Efsf e non c’è certezza che l’adesione alla proposta di ristrutturazione del debito di Atene riceva quella quasi entusiastica adesione (il 95%) richiesta perché tutti i numeri con pazienza infilati ieri sera a Bruxelles quasi come perline in una collana indiana conservino una loro parvenza di credibilità (e venga definitivamente evitato un possibile default "disordinato").

Sì, perché i commenti più scettici, non solo di marca statunitense o anglosassone, riguardano lo scenario “peggiore”, ossia “cosa succede se i numeri non dovessero tornare”, posto che già con le ultime concessioni (tra cui: l’aumento delle perdite sopportate dalle banche private detentrici di titoli di stato greci fino al 75% del valore nominale dei titoli stessi, attraverso un meccanismo fatto di maggiori svalutazioni del credito, il 53,5% contro il 50% inizialmente ipotizzato e minori tassi sui titoli che andranno a sostituire quelli esistenti, un mix di bond a breve termine emessi dallo stesso Efsf e di emissioni a lungo termine strutturate in modo da offrire un tasso “step up” equivalente a un rendimento medio annuo del 3,65%, inferiore a quanto richiede oggi il mercato) il rapporto debito /Pil non scenderà sotto 120,5% prima del 2020.

Il problema, continuano a ricordare gli osservatori più attenti  è che la ricetta adottata (dietro pressione fondamentalista-elettorale della cancelliera tedesca Angela Merkel) non funziona per la Grecia almeno per due motivi: primo la “cura da cavallo” imposta alla Grecia rischia di uccidere il cavallo stesso (a causa della caduta del Pil provocata dalle manovre di bilancio senza aiuti e “correzioni” più o meno volontarie il debito/Pil è destinato a balzare al 178% nel 2015, altro che decrescere), secondo la Grecia non può sperare di far ripartire la crescita, unico elemento in grado di far voltare pagina ad Atene come a tutti gli altri paesi dell’Eurozona, attraverso l'export come la Germania, semplicemente perché a differenza di paesi come l’Italia la Grecia non ha alcuna vasta e solida base di esportazioni.

Nel frangente l’accordo, che il numero uno della Bce Mario Draghi ha pubblicamente definito “molto buono” anche se bisognoso di un attento monitoraggio in fase di esecuzione (e al quale la stessa Bce ha contribuito, forzando ulteriormente l’interpretazione dei suoi ambiti operativi, “girando” ogni presente e futuro profitto derivante dai titoli di stato greci in portafoglio alle singole banche centrali nazionali europee le quali a loro volte li gireranno ai governi e questi ad Atene, realizzando di fatto una cartolarizzazione per nulla dissimile da quella che molte banche commerciali attuano sul proprio portafoglio di mutui in bonis), è probabilmente il migliore possibile ed è certamente inevitabile, in quanto conseguenza di una serie di scelte (o mancate scelte) che hanno portato sino a questo punto.

Atene paga un prezzo elevato al suo secondo “salvataggio”, venendo di fatto commissariata dalla “troika” che insedierà nella capitale greca un comitato permanente il cui compito sarà quello di verificare l’effettiva messa in opera delle misure di ristrutturazione dei conti pubblici e dell’economia greca (in base ai cui rapporti verrà decisa l’erogazione su base trimestrale degli aiuti), ma negli anni passati ha fatto di tutto per meritarsi la sfiducia degli altri membri di Eurolandia. L’Eurozona e la Germania non possono dal canto loro evitare una sempre più ampia ed evidente “socializzazione” dei rischi che qualcosa (magari dopo il 2014) vada storto e la crescita non sia così “robusta” come tutti si augurano a parole.

Unico spiraglio che infonde fiducia è la lettera che Mario Monti e altri undici capi di governo (tra cui lo spagnolo Mariano Rajoy, e l’inglese David Cameron) hanno inviato al presidente Ue Barroso e al  presidente del consiglio europeo Van Rompuy (ma di fatto soprattutto a Nicolas Sarkozy e Angela Merkel) in cui si chiede, in sostanza, di non insistere oltre nelle pure “essenziali” misure “per rimettere le nostre finanze nazionali su una base sostenibile” e iniziare a darsi da fare per far ripartire la crescita. Come? Ad esempio, suggeriscono i capi di governo firmatari della lettera, rimuovendo “le restrizioni che ostacolano l’accesso e la concorrenza” all’interno del settore dei servizi, poi creando “ entro il 2015, un mercato unico realmente digitale” dato che l’economia digitale “si sta espandendo rapidamente ma il livello di scambi internazionali rimane basso e la creatività è soffocata da una rete complessa di sistemi nazionali diversi nell’ambito del copyright”.

Poi ribadendo “l’impegno di costituire, entro il 2014, un mercato interno autentico, efficace ed efficiente nel settore dell’energia” e raddoppiando gli sforzi affinchè “gli imprenditori ed i creatori di innovazioni” possano “commercializzare le proprie idee e creare posti di lavoro e mettendo l’innovazione spinta dalla domanda al centro della strategia dell’Europa nel campo della ricerca e dello sviluppo”. Il tutto senza chiudersi a riccio ma anzi promuovendo “accordi di libero scambio con India, Canada, i paesi dell’area orientale ed una serie di partner dell’Asean” e dare nuovo impeto “ai negoziati commerciali con partner strategici come il Mercosur ed il Giappone”, dando anche “un’ulteriore spinta politica all’approfondimento dell’integrazione economica con gli Stati Uniti” e, last but not least, riducendo il peso della normative europea e agendo a livello nazionale e collettivo “per promuovere un mercato del lavoro ben funzionante che offra opportunità di occupazione e, cosa fondamentale, favorisca livelli maggiori di partecipazione al mercato del lavoro da parte di giovani, donne e lavoratori più anziani”.

Insomma: più innovazione, meno burocrazia, maggiore apertura alla concorrenza comunitaria anche in settori cari a Germania e Francia, maggiore cooperazione con altri paesi e aree economiche mondiali. Sembrano discorsi molto lontani ma non mi stupirei di vedere che il destino finale di Atene dipenda più dal successo di queste iniziative che non dal rispetto puntuale del “dicktat” fiscale-ragionieristico di stampo tedesco fatto passare come richiesta improrogabile avanzata dai mercati finanziari mondiali.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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