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Ricordando Marzabotto: 70 anni fa la strage nazista sulla popolazione inerme

Sono passati settant’anni dall’eccidio di Marzabotto compiuto dai nazi-fascisti nei confronti di cittadini inermi. Anziani, donne e bambini furono massacrati per spezzare le linee di collegamento con le brigate partigiane. Il feldmaresciallo Kesserling, mandante della strage, sarà prima condannato a morte per crimini di guerra, poi liberato e rimpatriato per le gravi condizioni di salute. Uno schiaffo al quale Piero Calamandrei reagirà con il grido di “Ora e sempre Resistenza”.
A cura di Marcello Ravveduto
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Quando leggo le commemorazioni sulla strage di Marzabotto immancabilmente mi torna alla mente il film di Giorgio Diritti, “L’uomo che verrà”, in cui la piccola Martina (Greta Zuccheri Montanari), ostinatamente chiusa nel suo silenzio, segue con lo sguardo e con gli gesti la gravidanza della madre, Lena (Maya Sansa). In quei nove mesi la tranquilla vita della masseria, nel cuore dell’Appennino tosco-emiliano, è stravolta dalla presenza invadente dei sodati tedeschi ma anche dei partigiani, bisognosi di un aiuto che rischia di mettere in pericolo la quiete familiare.

Il neonato viene alla luce proprio nei giorni in cui comincia il terribile rastrellamento nazi-fascista dell’autunno ‘44. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, tra il 29 settembre e il 5 ottobre, decide di fermare a tutti i costi la prolifica azione di guerriglia condotta della brigata Stella Rossa colpendo i civili che le forniscono sostentamento e copertura logistica.

La mattina del 29 settembre, incuranti delle brigate partigiane, quattro reparti accerchiano e rastrellano la vasta area compresa tra le valli del Setta e del Reno assalendo, con armamenti pesanti, abitazioni, cascine, scuole e parrocchie. Alle loro spalle rimane solo la terra bruciata.

Appena le prime notizie cominciano ad arrivare, si genera il panico tra la popolazione. A Casaglia di Monte Sole i paesani cercano di sfuggire alla rappresaglia raccogliendosi in preghiera nella chiesa di Santa Maria Assunta. Pensano, sbagliando, che i tedeschi avrebbero rispettato quel luogo di culto nel quale erano raccolti principalmente anziani, donne e bambini.

Ma gli uomini delle SS ignorano deliberatamente le consuetudini civili che regolano un conflitto armato. Irrompono nel tempio e abbattono, con una raffica di mitra, il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, prima che possa intervenire in difesa della sua comunità. I fedeli, ammutoliti e atterriti, sono condotti all’interno dell’adiacente cimitero e annientati sotto una pioggia di proiettili: 195 vittime, appartenenti a 28 famiglie diverse, tra le quali 50 bambini.

Nel film la piccola Martina resta miracolosamente illesa e riesce a fuggire. Come un automa si dirige verso casa trovandola vuota e immersa in un lugubre silenzio (un’assenza di parole di cui è vittima a sua volta). Prende la cesta in cui è stato deposto il fratellino e si avvia nella canonica di don Fornasini. Rimane lì finché l’eccidio non avrà termine (770 morti nell’itera area rastrellata). Dopo sei giorni di violenza torna a casa e da sola comincia una nuova vita prendendosi cura del neonato a cui intona una ninna nanna, riacquistando l'uso della parola.

Il silenzio come messaggio di morte è sconfitto dalle note di una dolce nenia. Martina, prendendo coscienza del trauma collettivo, riacquista la facoltà di parlare per ricordare e testimoniare al fratello la storia di un massacro che non può essere dimenticato.

Nel 1947 Kesselring è processato e condannato a morte per crimini di Guerra quale comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia. Successivamente la pena è commutata in ergastolo, però, già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, è rimesso in libertà. Tornato in Germania viene accolto come un eroe dai circoli neonazisti bavaresi, di cui, per altri otto anni, sarà attivo sostenitore. Non solo. Pochi giorni dopo il suo rientro dichiara pubblicamente che non ha proprio nulla da rimproverarsi, anzi gli italiani avrebbero dovuto erigergli un monumento per ringraziarlo del comportamento tenuto durante i diciotto mesi di occupazione.

A tale affermazione Piero Calamandrei risponderà con una famosa epigrafe, nell’ottavo anniversario delle morte di uno dei padri della Resistenza, Duccio Galimberti (4 dicembre 1952), scolpita in una lapide collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo.

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

I figli della Resistenza sono cresciuti portando negli occhi, nelle orecchie e nel cuore le immagini di un drammatico lutto nazionale. Per questo, la storia repubblicana sarà vissuta dalle nuove generazioni come emersione dal trauma della guerra. Quei fanciulli si rimboccheranno le maniche dando vita alla Ricostruzione e al Miracolo economico nella speranza di mondare la nazione dal peccato fascista e dare al all’Italia un “altro” posto in un’Europa di pace e prosperità.

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