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Renzi parla agli Stati Generali della Lingua Italiana… con parole inglesi

L’altro giorno, agli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo, Matteo Renzi ha dichiarato: “Serve una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy”. Come mai il presidente del consiglio ha usato un inglesismo proprio in quel contesto? Perché per lui, semplicemente, l’idea di cultura e di merce coincidono.
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Matteo Renzi
Matteo Renzi

L'altro giorno, in un passaggio del suo discorso agli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo, Matteo Renzi ha dichiarato:

Con la legge di stabilità abbiamo investito soldi nelle scuole per l'italiano all'estero, ma serve una gigantesca scommessa culturale sul made in Italy.

Made in Italy. Così ha detto. Ma come? Il presidente del Consiglio dei ministri interviene agli Stati Generali della Lingua Italiana nel mondo, a Firenze, culla della nostra cultura, nonché sede dell'Accademia della Crusca, usando l'espressione inglese made in Italy? Che strana contraddizione. Forse non a caso, poco prima, il sindaco di Firenze Dario Nardella, aveva dichiarato:

Soppiantare la nostra lingua con l'uso di sostituti stranieri significa condannarla a essere una lingua morta.

Eppure Renzi non l'ha capito, oppure ha deliberatamente scelto di non usare l'espressione "fatto in Italia" come suggerito dal suo successore a sindaco del capoluogo toscano, ha preferito attenersi all'inglesismo tipico da etichetta del piumino.

D'accordo, direte voi, il presidente del Consiglio dei ministri italiano ha usato un modo dire che è solo uno tra i tanti, un po' logori, che usiamo tutti ogni giorno. Un luogo comune da italiani in "fabbrichetta" e indefessi artigiani. Cosa c'è di sbagliato? Magari non l'ha fatto apposta.

Eppure, a ben vedere, anche nella scelta di usare l'espressione made in Italy, Matteo Renzi ha voluto inviare agli italiani il suo messaggio, e cioè che la letteratura, l'arte e il cinema italiano – in una parola, la cultura – possono e devono essere trattati come capi d'abbigliamento, come articoli di merceria, contro l'idea – a suo modo di vedere superata – che hanno quegli snobboni di sinistra che lo contrastano su ogni cosa, non ultimo sul referendum costituzionale.

Insomma, ha voluto alimentare, ancora una volta in più, l'idea che il suo lessico politico miri alla pancia di quel paese che ha in sprezzo intellettuali, artisti e tutti coloro che si guadagnano da vivere nei "salotti" di cui è infestata l'Italia che lui e il suo governo hanno deciso di cambiare. Senza rendersi però conto di far propria, a sua volta, una visione desueta della società. Una visione antica, fordista, legata a standard consumistici tipici del Novecento, ma tipicamente nostrana nel provincialismo con cui, per esempio, adopera una terminologia inglese per definire qualcosa che poteva essere detto in italiano.

Eppure il presidente del Consiglio dei ministri più giovane della storia dovrebbe sapere che negli Usa di Obama dove stasera andrà a cena, il PIL viene calcolato tenendo conto del tasso di creatività fine a se stesso prodotto dai suoi abitanti, dovrebbe sapere che la strategia di marketing per vendere una pizza non può essere la stessa per diffondere l'opera o il teatro, che la produttività e la ricchezza di un paese sono direttamente legate alla sua cultura, allo stato di evoluzione dell'informazione, alla sua capacità di sviluppare senso critico tra i cittadini.

Made in Italy riferito alla cultura è semplicemente un modo vecchio per ridurre la cultura a merce. E così inseguire un mondo che non esiste più.

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Scrittore, sceneggiatore, giornalista. Nato a Napoli nel 1979. Il suo ultimo romanzo è "Le creature" (Rizzoli). Collabora con diverse riviste e quotidiani, è redattore della trasmissione Zazà su Rai Radio 3.
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