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Quarant’anni fa il rapimento del giudice Mario Sossi

Il sequestro del giudice di Genova ad opera delle Brigate Rosse per molti aspetti anticipa le vicende del caso Moro. Durante la prigionia del magistrato esponenti politici e istituzionali si dividono tra fautori della trattativa e intransigenti difensori della Repubblica.
A cura di Marcello Ravveduto
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Sono le 7.35 del mattino. Un uomo con fare sospetto entra in una cabina telefonica di via Casareggi a Genova. È il 19 aprile del 1974. Alza la cornetta, inserisce un gettone, compone il numero. All’altro capo del telefono risponde un giornalista dell’Ansa. L’uomo legge all’ascoltatore un breve messaggio: “Un nucleo armato ha arrestato e rinchiuso in un carcere del popolo il famigerato Mario Sossi. Sossi è una pedina fondamentale dello scacchiere della controrivoluzione, persecutore fanatico della classe operaia, del movimento degli studenti, dei commercianti e delle organizzazioni della sinistra in generale”. Questo è il testo del comunicato n. 1 delle Brigate Rosse emesso il giorno successivo al rapimento del magistrato, il dodicesimo dall'inizio dell’anno.

La sera prima alle 20.45, mentre nelle case italiane le famiglie si apprestano ad assistere alla 145sima puntata di Rischiatutto, il giudice, privo di scorta, viene catturato nei pressi della sua abitazione da un manipolo di uomini al comando di Alberto Franceschini. Sarà condottò in un covo delle BR dove rimarrà per 35 giorni.

Il sequestro e la prigionia sono due aspetti caratteristici della strategia selettiva del terrorismo di estrema sinistra. A differenza dei neofascisti, che perseguono la strategia della tensione – in combutta con pezzi deviati dello Stato – con attentati stragisti, i rossi scelgono obiettivi simbolici istituzionali, sociali e del capitalismo italiano per mettere in crisi il cosiddetto SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali).

Secondo diverse testimonianze tutto ha inizio nell’agosto del 1970 a Pecorile in provincia di Reggio Emilia. Qui si incontrano, per la prima volta, giovani disillusi dalla rivoluzione mancata del ’68 che sono alla ricerca di un nuovo progetto politico in cui credere. Alcuni sono comunisti ma hanno lasciato il Pci e i gruppi extra parlamentari per il loro immobilismo, altri sono cattolici forgiati nella temperie delle assemblee e dalle lotte universitarie. Su tutti spiccano Alberto Franceschini, Mara Cagol e Renato Curcio che teorizzano l’illegalità della borghesia e la lotta armata contro la democrazia parlamentare.

Il nuovo obiettivo programmatico è “colpire il cuore dello Stato”. Dopo circa un mese sono già pronti a compiere la prima azione dimostrativa appiccando il fuoco alle auto dei capi reparto della Fiat a Torino (17 settembre 1970). Tra il 1972 e il 1973 c’è il salto di qualità con l’avvio dei sequestri lampo: il dirigente della Siemens Ilardo Macchiarini (3 marzo 1972), il sindacalista Cisnal Bruno Labate (12 marzo 1973) e il dirigente dell’Alfa Romeo Michele Mincuzzi (28 giugno 1973). Con la cattura di Ettore Amerio (10 dicembre 1973), capo del personale Fiat, si inaugura la stagione dei rapimenti di lunga durata.

Sossi viene scelto come obiettivo perché è stato il Pubblico Ministero nel processo contro il Gruppo XXII ottobre, guidato da Mario Rossi, che opera a Genova tra il 1969 e il 1971. Si tratta della prima organizzazione della sinistra extraparlamentare che imbocca, insieme ai Gruppi d’azione partigiana (GAP) fondati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, la strada della violenza rivoluzionaria: dopo una serie di attentati e rapimenti si giunge al drammatico omicidio del fattorino Alessadro Floris la cui morte viene ripresa dagli scatti di un fotografo dilettante, diventando una delle immagini simbolo dell’avanzare del terrorismo.

Sossi, dunque, secondo la retorica rivoluzionaria delle Brigate Rosse, è un boia di Stato. Durante il processo era stato bersagliato dalla sinistra extra parlamentare con una serie di slogan minacciosi: “Dentro Sossi, fuori Rossi”; “Sossi fascista sei il primo della lista”.

Le vicende del caso Sossi anticipano alcuni aspetti caratterizzanti del sequestro Moro. Il primo è il tentativo di screditare le lettere che il giudice scrive dal carcere del popolo chiedendo la sospensione delle indagini per avviare una trattativa con i terroristi. I dubbi dei partiti, dei colleghi e dei media saranno simili a quelli che colpiranno lo statista pugliese: è una sua iniziativa? Ha scritto sotto dettatura? Vuole realmente che le indagini siano bloccate o la richiesta è il frutto delle minacce dei carcerieri?

La seconda similitudine è l’intransigenza della classe politica: il ministro dell’Interno Taviani in ben due occasioni pubbliche dichiara che il Governo non accetterà mai di trattare con i terroristi. Una posizione ribadita anche dal Presidente della Repubblica che risponde ad una lettera inviatagli da Sossi durante la prigionia. Il principio, anche quattro anni più tardi, sarà sempre lo stesso: la trattativa non solo riconoscerebbe l’avversario come un interlocutore, giustificando implicitamente la violenza della lotta armata, ma allo stesso tempo diminuirebbe l’autorevolezza delle istituzioni annullando il valore della Costituzione come pilastro della democrazia dei partiti.

Alla fine sarà proprio il giudice a suggerire a Franceschini la soluzione ideale: scavalcare il Governo e i partiti per rivolgersi direttemente alla magistratura in quanto potere autonomo della Repubblica. La base della trattativa è la scarcerazione di otto detenuti del Gruppo XXII ottobre, in cambio della restituzione del magistrato. La Corte d’Appello di Genova alla fine, anche in virtù di un’istanza presentata dall’avvocato Marcellini (legale della famiglia Sossio), concederà la libertà provvisoria ai componenti della banda. La situazione si complica quando Francesco Coco, Procuratore generale della stessa corte e amico personale di Sossi, si oppone al dispositivo facendo ricorso in Cassazione. I terroristi, tuttavia, in attesa della pronuncia della Corte liberano il magistrato.

Purtroppo, questa storia non ha un lieto fine: la Cassazione accoglie il ricorso di Coco e revoca l’ordinanza di scarcerazione. La vendetta delle BR arriva implacabile l’8giugno del 1976: alle ore 13:30 mentre l’auto di servizio, con i due agenti di scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana, sta riportando a casa l’intransigente magistrato, un commando entra in azione esplodendo colpi di pistola e raffiche di mitra. Nell’agguato i tre uomini perdono la vita. Il giorno dopo, alcuni militanti delle Brigate Rosse (fra cui Prospero Gallinari e Renato Curcio), durante un processo in cui sono imputati, si alzano in aula e rivendicano l'omicidio del Procuratore Generale, che lasciava moglie e tre figli.

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