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Pubblicata una lettera inedita di Pasolini: Pier Paolo scrive al fratello partigiano

È stata pubblicata ora, a distanza di quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, una lettera inedita scritta al fratello Guido, morto partigiano in Friuli nel 1945. Un Pasolini poco più che ventenne immagina di dialogare con il fratello, in modo intenso e personale: ecco per intero il testo della lettera, risalente al maggio del ’45.
A cura di Federica D'Alfonso
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I primi anni della sua giovinezza Pier Paolo Pasolini li trascorre in gran parte nel paese materno, a Casarasa della Delizia, in Friuli. Si era trasferito qui nel '43 con la madre e il fratello minore: appena due anni dopo questo stesso fratello, Guido, morirà durante la Resistenza fra le montagne di Porzûs. A questo episodio è legata la lettera che oggi riportiamo, una lettera inedita ritrovata fra le carte di Antonella Giordano, che sta curando per Garzanti un'edizione nuova dell'epistolario di Pasolini.

La lettera risale al maggio del 1945, quando la famiglia Pasolini riceve la notizia ufficiale della morte di Guido: appena diciannovenne, di tre anni più piccolo di Pier Paolo, Guido era iscritto al Partito d'azione e arruolato nella brigata Osoppo con il nome di battaglia "Ermes". A Porzûs si consuma uno degli episodi più sanguinosi e controversi della lotta di Resistenza: l'uccisione di diciassette partigiani della Brigata Osoppo da parte, probabilmente, da quanto hanno stabilito le fonti, di alcuni partigiani guidati da Mario Toffanin "Giacca".

Pasolini rimarrà altri cinque anni a Casarsa, in quel Friuli che considerava casa propria pur essendo nato a Bologna, fino a quando si trasferirà con la madre a Roma nel '50, in seguito allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità e l'espulsione dal Partito Comunista.

Il dolore più straziante ci è nato quando abbiamo visto una tua fotografia di quando avevi quattordici anni; quel tuo viso che m'assomiglia, con gli occhi cerchiati e un'espressione patita di ragazzo robusto ma troppo entusiasta, ci ha gettato nel cuore un impeto, una rabbia di pianto, come se tutto il nostro passato comune ci avesse sommerso. Hai udito come la mamma gridava, chiamandoti? Ora essa è qui, seduta, che tace. Se tu la vedessi, come la riconosceresti! L'infinito dolore che le hai dato non l'ha segnata, è sempre la nostra giovinetta, col suo viso carissimo della mattina, quando non ha ancora fatto la toeletta, e sfaccenda e s’affatica per casa. È lì che tace, con uno di quei suoi fazzoletti chiari sul capo; tu la riconosceresti, perfettamente, non è mutata per nulla; ma forse ti riuscirebbe un po' nuova, come a me, quella sua espressione, soprattutto della bocca, che è forse un atteggiamento di dolore, ma io m’illudo, mi sforzo a credere che sia una specie di sorriso. Non sono passati che due notti e un giorno da che abbiamo saputo della tua morte, e una sola notte da quando quella tua fotografia ci ha dato per un attimo la sensazione, la divinazione dell’immensità del nostro dolore. E quindi tu ti meraviglierai come io possa aver preso la penna in mano, e incominciato a scriverti; me ne sarei meravigliato anch’io, solo tre giorni fa, benché coi pensieri di questa specie mi sia da molti mesi approfondito. Ma a che serve la nostra meraviglia? Ecco una realtà: tu laggiù un giorno di questo inverno, morto su un prato, o chissà dove; ed ecco un'altra realtà: io che ora, in questa stanzetta di Versuta, che tu hai conosciuto quando non vi avevamo ancora trasportato i mobili, io che ora ti scrivo. Dobbiamo arrenderci. E la resa, si vede, è necessaria; viene dal nostro corpo medesimo,quello che tu non hai più, ed io ho. È necessario poiché scrivendoti non penso che tu sia morto, ma vivo, anche se immancabilmente diverso da quel ragazzo che fu mio fratello, e che ho visto perfettamente, carnalmente, fatalmente tale nella fotografia.

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