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Prodotto interno lordo, cosa significa e perché è importante per tutti noi

Cos’è il Prodotto interno lordo (Pil) e come mai è così importante per tutti i cittadini/contribuenti di un paese? Vediamolo insieme nel caso dell’Italia…
A cura di Luca Spoldi
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Cos’è il Prodotto interno lordo (Pil) e perché è così importante per la vita dell’italiano medio, ve lo siete mai chiesti? Per Prodotto interno lordo si intende la somma dei beni e dei servizi finali prodotti dai residenti di un paese in un dato periodo di tempo: in Italia, ad esempio, nel 2015 il Pil è risalito a circa 1.636,4 miliardi di euro.

In particolare: il termine “prodotto” si riferisce ai beni e servizi che vengono valorizzati attraverso un processo di scambi di mercato, il termine “interno” sottolinea come la somma si riferisca a tutto ciò che viene prodotto nel territorio del paese indipendentemente dalla nazionalità delle imprese o individui che concorrono alla produzione (se ci si vuole riferire solo a ciò che viene prodotto da imprese nazionali  occorrerebbe sottrarre dal Pil ciò che viene realizzato nel paese da imprese estere e aggiungere ciò che viene realizzato all’estero da imprese nazionali, ottenendo il Prodotto nazionale lordo).

Infine il termine “lordo” fa riferimento al fatto che il valore della produzione così calcolata è al lordo degli ammortamenti (ossia non tiene conto del deprezzamento dello stock di capitale fisico intervenuto nel periodo). Se si sottraggono dal Pil gli ammortamenti si ottiene il Prodotto interno netto (Pin). Tutto chiaro? Bene, allora sappiate che il Pil è inteso in termini “nominali” se i prezzi di beni e servizi sono considerati in base ai valori correnti (quindi senza tener conto dell’eventuale inflazione/deflazione), ovvero in termini “reali” se i prezzi dei beni vengono mantenuti costanti rispetto a un anno base (in questo caso depurando il Pil delle variazioni di prezzo positive o negative intervenute, ossia tenendo conto dell’inflazione/deflazione).

Perché il Pil è così importante per tutti i cittadini/contribuenti? Perché oltre ad essere un indice della maggiore (se cresce) o minore (se decresce) ricchezza prodotta annualmente da un paese, il Pil viene utilizzato in alcuni rapporti che regolano l’appartenenza dei singoli stati membri all’Unione europea e all’area dell’euro.

Più precisamente in base al Patto di stabilità e crescita sottoscritto nel 1997 da tutti gli appartenenti all’Unione monetaria europea oltre che in base al Fiscal Compact sottoscritto nel 2012, il rapporto deficit/Pil non deve essere superiore al 3%, con un’ulteriore precisazione che il rapporto tra deficit “strutturale” (non legato a emergenze) e Pil non dovrebbe superare lo 0,5%, mentre il rapporto debito/Pil se superiore al 60% deve essere ridotto di un ventesimo all’anno, così da rientrare entro la soglia del 60% entro il 2032 (20 anni dopo la sigla del Fiscal Compact).

A distanza di pochi anni da più parti sono piovute critiche sia alle modalità di calcolo del Pil (e alla sua “centralità” come indicatore della capacità di produrre ricchezza da parte di un paese), sia sui valori puntuali dei rapporti deficit/Pil e debito/Pil, che sono calcolati sulla base del Pil a valori nominali. Una precisazione quest’ultima di non poco conto in un periodo storico a bassa inflazione (quando non deflazione).

Infatti mentre sul deficit strutturale non incide il calcolo degli interessi pagati sul debito pubblico pregresso, gli stessi interessi contribuiscono anno dopo anno a gonfiare il debito pubblico, ormai superiore ai 2.257 miliardi di euro secondo i calcoli dell’Istituto Bruno Leoni, ovvero al 133,2% del Pil.

Poiché, nonostante le misure varate dalla Bce abbiano compresso i tassi in emissione, gli interessi che il Tesoro paga sui titoli di stato già emessi non cambiano se non marginalmente (essendo i titoli di stato strumenti per la gran parte a tasso fisso), il costo medio del debito pubblico è al momento sceso poco sotto al 3%, ossia risulta ancora più che triplo rispetto al tasso di crescita del Pil italiano.

Così un Pil che cresce poco e un debito già molto elevato e difficile da tagliare (perché le uniche voci di bilanci su cui si potrebbe operare con risultati apprezzabili sono quelle della sanità pubblica e delle pensioni) e che continua a crescere, anche se a ritmo ridotto (per il Fondo monetario internazionale il deficit/Pil italiano scenderà al 2,5% quest’anno e al 2,2% nel 2016), fanno sì che il debito/Pil sia destinato a mantenersi a livelli stratosferici ancora per diversi anni.

Secondo il Fondo monetario internazionale solo nel 2021 il rapporto tornerà in area 125%, che è pur sempre più del doppio del 60% indicato come obiettivo dal Fiscal Compact. Il che significa che all’Italia resteranno a quel punto solo 12 anni per tagliare il rapporto di 65 punti percentuali, con una riduzione media di quasi 5,5 punti percentuali l’anno.

Da qui ad allora probabilmente gli interessi sul debito saranno tornati a salire, col rischio che se l’Italia non riuscirà a trovare per tempo un nuovo motore per la crescita (frenata da un elevato peso fiscale e da una bassa produttività del lavoro, a sua volta riconducibile all’elevato cuneo fiscale sullo stesso ma anche ai bassi investimenti in innovazione) o a darsi un maggiore controllo della spesa pubblica, cosa che richiederebbe nuovi tagli e/o nuove imposte, con tutte le implicazioni sociali ed economiche che ciò comporterebbe nel breve periodo, la discesa del rapporto possa rallentare ulteriormente.

A quel punto sarebbe solo una questione di “quando”, non di “se”, modificare obiettivi e tempistica del Fiscal Compact oppure accettare il fatto che l’Italia non è in grado di tenere il passo con la Germania e con gli altri paesi dell’Unione monetaria europea. La crescita del Pil “drogata” dal ricorso sistematico all’indebitamento pubblico rivelerebbe così tutta la sua intrinseca fragilità, ma c’è da stare certi che qualche politico continuerebbe a usarla come strumento di campagna elettorale. Ma questa è un’altra storia da approfondire prossimamente.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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