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Petrolio sotto i 100 dollari al barile, ma la benzina resta alle stelle

Il petrolio cala sotto i 100 dollari al barile: facendo due calcoli si scopre che la benzina potrebbe costare sui 70 centesimi al barile e non quasi 1,85 euro come in questi giorni. Pesano le tasse e i costi distributivi, ma anche la scarsa concorrenza.
A cura di Luca Spoldi
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Se è vero come è vero che uno dei fattori fondamentali per far ripartire la crescita è una politica energetica che consenta di garantire energia abbondante e a basso costo, allora per l’Italia sarà davvero dura uscire dalla stagnazione che sta seguendo la recessione degli ultimi anni. Ieri, infatti, il prezzo del petrolio Wti (ossia del greggio nordamericano) è scivolato nuovamente sotto i 100 dollari al barile, chiudendo per la precisione a 99,96 dollari (95 centesimi in meno al barile), mentre a Londra il Brent (ossia il greggio estratto dal Mare del Nord) si era riportato sui 106,02 dollari al barile (in questo caso con un calo di 91 centesimi). Non si tratta di un movimento isolato, visto che a New York il future scadenza agosto (ossia il contratto con cui si compra petrolio pagando ora una percentuale del prezzo, il premio, per poi regolare i conti a fine agosto decidendo se pagare il prezzo pattuito e ritirare la merce o rinunciarvi perdendo il premio) è in calo pressoché ininterrottamente dal 30 giugno scorso, così come a Londra sta accadendo al future scadenza agosto sul Brent.

Perché il petrolio cala? Perché mentre la produzione resta a livelli elevati, tra l’altro grazie alla graduale ma costante ripresa della produzione libica, che più che bilancia una finora piccola perdita di produzione irachena legata all’avanzata delle milizie sciite dell’Isis, la domanda resta molto contenuta, anche a causa della incerta e finora modestissima ripresa europea. Bene, dirà qualcuno, almeno caleranno i prezzi dei prodotti petroliferi a partire da benzina e gasolio. Non proprio: stamane secondo Youpetrol.it il prezzo medio in Italia di un litro di benzina “super senza piombo” è di 1,836 euro e quello di un litro di gasolio arriva a 1,692 euro. Considerando che l’euro vale circa 1,36 dollari, che un barile di petrolio contiene 159 litri di greggio e che da esso si ricavano vari prodotti tra cui circa 50 litri di benzina e quasi altrettanto di gasolio, benzina e gasolio se non ci fossero tasse e costi vari (di distribuzione ma anche di marketing) potrebbero costare attorno ai 70-75 centesimi al litro.

La differenza a cosa è dovuta? Troppo facile: alle tasse. Come spiega anche il Ministero dello sviluppo economico, al prezzo al netto di imposte (per il 14 luglio fissato in 0,714 euro al litro per la benzina e 0,723 euro per il gasolio) occorre aggiungere un’accisa che dopo l’ultimo aumento di  fine febbraio scorso (24 centesimi di accisa al litro, cui si sono sommati 10 centesimi di maggiore Iva) ormai pesa quanto o più del costo industriale del prodotto: 0,731 euro per ogni litro di benzina senza piombo e 0,62 euro per ogni litro di gasolio (si salva per il momento il Gpl per auto che a fronte di un costo al netto di imposte di 0,485 euro al litro vede un’accisa di soli 0,147 euro al litro). Non solo: sui carburanti si paga l’Iva al 22% come su qualsiasi altro prodotto, peccato che in questo caso si applichi sul prezzo già comprensivo di accise, insomma una tassa che si applica sopra un’altra tassa.

Ma le compagnie non possono far nulla? Loro, puntualmente sul banco degli accusati ogni volta che il prezzo aumenta o, come in questo caso, non si adegua ai ribassi del prezzo del petrolio, ribadiscono ad ogni occasione che la colpa è del sistema, che i margini della raffinazione sono già ridotti all’osso, che ci sono troppe pompe di benzina aperte (secondo dati Autopromotec a fine 2012 erano ancora quasi 23 mila, contro i 15 mila scarsi della Germania, i 12.500 della Francia  e i circa 9 mila esistenti in Spagna e in Gran Bretagna) che rendono inefficiente e costoso il sistema di distribuzione, dell’ingente carico fiscale che pesa sul petrolio. Non hanno certamente torto, ma se poi si guarda alle “marche” sembra che anche la scarsa concorrenza pesi non poco sulle tasche degli italiani.

Tra la più costosa (al momento Q8) e la più economica (quest’oggi Esso) la differenza, calcolata sempre da Youpetrol.it su un pieno di benzina da 60 euro teorici, è di circa 6 euro (per lo stesso “pieno” se vi rifornite da Esso pagate 57,7 euro, se andate da Q8 pagate 63,83 euro), vale a dire un 10%. La concorrenza tra oligopolisti sembra dunque esercitarsi più a colpi di spot, fatti pagare indirettamente ai consumatori, che con sconti sul prezzo.  Controprova: le pompe “no logo”, purtroppo ancora una minoranza (sono meno di 4 mila in tutta Italia anche se stanno aumentando, in particolare nei grandi centri urbani come Roma, Milano o Napoli), specialmente quelle automatizzate, consentono risparmi medi tra i 10 e i 12 centesimi al litro rispetto agli impianti “di marca” serviti. Insomma, inutile illudersi: nel “bel paese” delle corporazioni e delle lobbies il mercato e la concorrenza restano oggetto di discussioni da salotto televisivo, spesso dai toni surreali, mentre a pagare il conto, sempre più salato, sono le tasche degli italiani. Fino a quando?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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