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Peter Greenaway a Ercolano: “il cinema è morto!” (VIDEO)

Abbiamo intervistato il regista e pittore gallese Peter Greenaway nell’ambito del Festival della memoria, manifestazione organizzata al Museo Mav di Ercolano, in programma fino al 21 settembre, che rientra nelle attività del Forum Universale delle Culture.
A cura di Andrea Esposito
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Abbiamo incontrato il regista e pittore gallese Peter Greenaway nell’ambito del Festival della Memoria, una manifestazione, in programma fino al 21 settembre, organizzata al Museo MAV di Ercolano e che rientra nelle attività del Forum Universale delle Culture.

In principio era l’Immagine

“Lo sai che nella Bibbia c’è una grande bugia?”. Così esordisce, non senza un certo gusto per l’effetto, Greenaway quando ci avviciniamo per fargli l’intervista. “E quale?” rispondiamo noi. “Lì c’è scritto: In principio era il Verbo. Assolutamente falso, in principio era l’Immagine!”. In effetti, questa ci sembra la migliore introduzione possibile a un’artista che ha fatto della riflessione sul significato delle immagini, sul senso stesso della rappresentazione, il perno della sua poetica, da “I misteri del giardino di Compton House” (1982), “Lo zoo di Venere” (1985), “Il ventre dell’architetto” (1987), fino a “Nightwatching” (2007).

Pittore di immagini in movimento

Peter Greenaway, infatti, citando wikipedia “è uno dei più significativi cineasti della cinematografia britannica contemporanea, e occupa di diritto un posto centrale nel dibattito sul cinema d'autore”. Ma proviamo a spiegare il perché: fondamentale, in primis, è la sua formazione come pittore che chiarisce subito il suo interesse per le arti figurative applicate al cinema. Il regista gallese, infatti, da sempre è annoverato tra coloro che danno scarsa importanza alla trama, e più in generale agli aspetti narrativi, focalizzandosi solo sulle immagini. In realtà, più correttamente, dovremmo dire che egli applica una diversa concezione di trama che non risponde alle logiche classiche.

I suoi film, infatti, si strutturano a partire da un sistema di segni che scaturiscono dalle inquadrature e dai movimenti di macchina, proverbiale è l’utilizzo che fa dello zoom o dei carrelli che si muovono su linee ortogonali rispetto all’inquadratura, che possono legarsi a sequenze numeriche, cromatiche o alfabetiche (vedi “Lo zoo di Venere”). Anche per questo la tenuta di molte inquadrature, o sequenze, è lunga e insistita (quando uno dice “perché è così lento?”). Greenaway, infatti, come un pittore di immagini in movimento, è ossessionato da problemi di natura compositiva: detto in termini più specificamente cinematografici, del rapporto tra filmico e profilmico, e cioè, di ciò che sta dentro e fuori l’inquadratura e di come ciò che sta fuori entra e diventa poi “visibile”.

Raccontare equivale a mentire

“Il cinema è troppo importante per lasciarlo fare ai narratori di storie”. Questa è una delle sue frasi più citate e che chiarisce bene, alla luce di quanto detto, quali siano i suoi propositi in ambito cinematografico. Egli insiste sulla necessità di una costante ricerca linguistica specifica al dispositivo cinematografico e sull’importanza di immergere lo spettatore all’interno di un universo simbolico che prescinda del tutto da espedienti narrativi standardizzati.

Altro elemento fondamentale del cinema di Greenaway è il rapporto con la Storia. Egli infatti, come ribadisce anche nella nostra videointervista, ritiene che “non esiste la Storia, ma soltanto gli storici”. La Storia, secondo Greenaway, è inconoscibile, “non puoi tornare indietro nel tempo e vedere com’è andata, né puoi provare alcunché!”. Questo aspetto si lega al concetta di Verità che, sempre secondo Greenaway, si può esprimere solo nei termini di una negoziazione che abbia come punto di partenza, come presupposto, l’accettazione degli espedienti della finzione, e cioè del falso. In parziale analogia con la concezione felliniana dell’arte, che egli non a caso cita di frequente, il cinema, e più in generale l’arte, è finzione che, proprio in quanto tale, può avvicinarsi alla vetta della verità. Fondamentale è però, in questa concezione, assumere che si tratti di finzione, non è un caso che la nostra videointervista si apra proprio con queste parole: “I am a fiction maker” (Io creo finzioni).

La conferenza di Ercolano

“Il cinema è morto”. Con queste parole Greenaway ha impostato la sua riflessione sul cinema contemporaneo che a suo avviso ha ormai perso qualunque potere simbolico. “Viviamo sotto l’egida di una nuova Trinità – ha proseguito il regista – al cui vertice vi è lo smartphone, uno strumento che genera la necessità di filmare e fotografare in qualsiasi momento tutto ciò che ci circonda, trasformando chiunque in regista. Aveva ragione Godard quanto a metà degli anni ’80 diceva che il cinema stava per scomparire ed ha ragione Tarantino, alfiere del cinema commerciale, che proprio lo scorso anno a Cannes pronunciò le stesse parole”.

Greenaway ha inoltre annunciato la realizzazione di un progetto multimediale dedicato al personaggio di Agrippa, “uomo fidato e cognato dell'Imperatore Augusto. Agrippa – ha proseguito il regista – mi ha sempre affascinato perché in un'epoca in cui c'era una grande lotta per il potere, lui aveva scelto e in qualche modo accettato di vivere all'ombra dell'Imperatore Augusto. Nella mia storia che sarà raccontata con un film, una mostra, una performance e un sito web farò morire Agrippa a Pompei”.

Greenaway ha anche mostrato in anteprima alcune immagini tratte dal suo ultimo film, in uscita il prossimo anno, dedicato al regista e teorico russo Sergej Ėjzenštejn, e in particolare al suo periodo messicano. Uno dei tanti momenti imperdibili di un incontro davvero fuori dall’ordinario.

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